Corriere della Sera - La Lettura
Colpi di montaggio e colpi bassi Gli eredi di Bergman
I nuovi talenti dopo l’epoca dei giganti A Milano l’omaggio al Premio Oscar Susanne Bier
Ci sono numi tutelari quando parliamo di arte che viene dal nord. Per il teatro sono scrittori come lo svedese August Strindberg e il norvegese Henrik Ibsen che hanno influenzato tutta l’epoca moderna. Anche il cinema ha avuto i suoi eroi talvolta a doppio servizio come il più grande, Ingmar Bergman, che ha lavorato per decine di anni su oltre 40 film ma anche su grandi testi in palcoscenico. E se si dice Svezia si dice Bergman, se si dice Danimarca si intende Carl Dreyer: entrambi registi fustigatori dei propri e altrui peccati, quest’ultimo in cerca della Parola ( Ordet) e, nel caso, di Vampyr. Allo stesso modo, quando si parla di attori vengono subito in mente le due regine di Stoccolma, Greta Garbo e Ingrid Bergman, arrivate a conquistare Hollywood accompagnate da due registi come Mauritz Stiller e Gustaf Molander.
Non sarebbe giusto fermarsi al passato, ai ricordi di sfacciate bellezze come Mai Zetterling o all’harem bergmaniano i n c o n t i n u a e vo l u z i o n e con Liv (Ullmann), Ingrid (Thulin), Harriett e Bibi (Andersson) oltre ai volti scavati dal dolore dei suoi grandi, pensosi e infelici eroi, come Gunnar Björnstrand, Max von Sydow, Erland Josephson o Victor Sjöström che prima del Posto delle fragole fu maestro ispiratore di Ingmar.
Nel festival I Boreali (a Milano dal 27 febbraio al 1° marzo) ci saranno i talenti di oggi, film nuovi come Cold Case Hammarskjöld del danese Mads Brügger, e ritorni come The Juniper Tree. E ci sarà anche un omaggio alla danese Susanne Bier che nel 2011 vinse l’Oscar del film straniero con In un mondo migliore, mentre il 27 febbraio esce il remake all stars (Julianne Moore versus Michelle Williams) del super melò Dopo il matrimonio; con i suoi due film presentati in collaborazione con il festival Sguardi Altrove, insieme a Open Hearts e Non desiderare la donna d’altri.
In questi anni, un po’ nascosti nel mercato che parla quasi solo inglese, ci sono nomi importanti vittoriosi nei festival, alfieri di un’idea di cinema francescano, senza neppure movimenti di macchina, contro la «corruzione» degli effetti speciali (inclusa la luce elettrica). Così anni fa scrisse nel suo Dogma 95, il chiacchierato, non diplomatico danese Lars von Trier (e il suo allievo di Festen Thomas Vinterberg), autore di titoli pregiati come Le onde del destino, il brechtiano Dogville con Nicole Kidman e di recente del violento e sanguinario La casa di Jack che finisce nell’Inferno dantesco. Non solo: Lars ha girato pure serie tv quando non era di moda ( The Kingdom).
Lo svedese Roy Andersson ha sbancato la Mostra di Venezia con il pensieroso Piccione seduto sul ramo... a immagini fisse, come se il montaggio fosse ancora da inventare.
E chi non ha goduto delle follie rock e scapigliate, non sempre sobrie né corrette, di Aki Kaurismäki dal cult Leningrad Cowboys go America a Miracolo a Le Havre passando per L’uomo senza passato e Nuvole in viaggio... A lui si è aggiunto il fratello Mika: insieme i due cineasti, prima e dopo il set, gestiscono senza moine un bar a Helsinki in cui non è certo proibita la birra. E che dire della scoperta Ruben Östlund, quarantacinquenne svedese personalissimo, cui dobbiamo la cronaca anti-familiare con valanga Forza maggiore e l’apologo social antisnobismo di The Square...
Ci sono infine talenti danesi sparsi, da Gabriel Axel ( Il pranzo di Babette dalla Blixen), a Bille August che ha narrato la vita del maestro (come ha fatto anche Liv Ullmann), all’emigrato a Hollywood Renny Harlin che ha nel carnet Die Hard 2 (58 minuti per morire. Die Harder) con Bruce Willis. Il nome di punta pare essere quello di Nicolas Winding Refn, quarantanovenne che ha (ri)lanciato Ryan Gosling in Drive, Tom Hardy in Bronson, ha fatto discutere con The Neon Demon e con 10 puntate serial di Too Old to Die Young ha girato un capolavoro di lentezza d’autore sulla violenza e le corruzioni oggi.