Corriere della Sera - La Lettura
I tamburi giapponesi non temono l’elettronica
Arrivano in Italia i Kodo, virtuosi custodi di un’antica tradizione che ora si aprono alla modernità. «La Lettura» li ha incontrati
Itaxi arrivano numerosi al civico 252 di Rue du Faubourg Saint-Honoré, davanti alla storica Salle Pleyel. La fila davanti all’ingresso cresce a dismisura in brevissimo tempo. I manifesti appesi all’esterno dell’edificio annunciano il ritorno dei Kodo, storico gruppo giapponese di percussionisti (il numero dei componenti è variabile: si va da un trentina in giù; a Parigi erano 14), che dalla data di nascita ufficiale, il 1981 con tanto di debutto alla Filarmonica di Berlino, non ha mai abbassato l’asticella della qualità nelle proprie performance. Ed è sempre stato in grado di attirare ai propri spettacoli un pubblico eterogeneo.
Quando le porte del teatro si aprono, lo sciame umano si insinua educatamente per prendere posto e assistere al loro nuovo spettacolo, One Earth Tour 2020: Legacy, che, dopo il «tutto esurito» del debutto francese, arriverà in Italia (3 e 4 marzo al Teatro dal Verme di Milano, il 7 marzo al Teatro Verdi di Firenze, il 9 marzo all’Auditorium Parco della Musica di Roma).
Yuichiro Funabashi, l’attuale regista (ruolo in cui si alternano periodicamente i componenti storici del gruppo) e solista egli stesso, dopo una conversazione su questioni musicali, ha confessato a «la Lettura» che tiene a ricordare e sottolineare soprattutto il luogo di provenienza, l’isola di Sado in Giappone. «Ci piacerebbe che al nostro pubblico interessasse anche la nostra terra. Penso che l’origine sia importante per comprendere meglio quello che facciamo, come lavoriamo, come ci prepariamo».
L’isola di Sado è situata nella regione di Chubu ed è raggiungibile in un paio d’ore di navigazione dalla costa di Niigata. A Sado, quasi 900 chilometri quadrati di estensione, dove nel Seicento vennero scoperti dei giacimenti auriferi (attivi fino al 1989), furono esiliati politici e intellettuali non graditi al governo (fra questi il fondatore del teatro No, il maestro Zeami Motokiyo).
Il gruppo dei Kodo vive nell’omonimo villaggio, una settantina di persone fra membri della formazione e le loro famiglie, e si muove da lì unicamente per le lunghe tournée internazionali. Nella «comune» dei Kodo l’accesso non è sottoposto a regole particolari. Chi vuole fare parte del gruppo fa una richiesta ufficiale. Si presenterà lì per colloqui e soprattutto per un’audizione. Se li passerà, potrà stare con i Kodo per due anni di formazione, «pagando una retta» per vitto e alloggio. Si suona, si medita, ci si forma per diventare uno dei membri di questo prestigiosissimo ensemble. Chiediamo quante fra le persone che si presentano provengono da conservatori o da studi comunque classico-accademici. Lo sguardo del nostro interlocutore rivela un certo tentennare («lo dico o non lo dico?»), poi risponde: «Quasi nessuno di quelli che fanno domanda da noi viene dai conservatori o da una formazione accademica».
Grazie ai Kodo, l’antica tradizione dei taiko, termine generico che indica i tamburi giapponesi — tamburi a barile, bipelli che vengono suonati con una coppia di bacchette — è arrivata nelle sale di tutto il mondo. I loro spettacoli, im