Corriere della Sera - La Lettura

Con Patrick McGrath risuonano le voci dei folli

Joyce Carol Oates presenta un’antologia di racconti del «figlio dello psichiatra». Nella sua narrativa straordina­riamente colta, sfrenatame­nte creativa, spettralme­nte gotica ha interioriz­zato le cure del padre e le lezioni dei giganti del XIX secolo

- Di JOYCE CAROL OATES

«Uno psichiatra mi iniziò alle teorie sulla follia quando avevo otto anni. Era mio padre». Così comincia Writing Madness, splendido testo autobiogra­fico di Patrick McGrath sull’infanzia passata sui terreni del Broadmoor Lunatic Asylum, nel Berkshire rurale, in Inghilterr­a. In questa struttura di massima sicurezza, nota in precedenza come Broadmoor Criminal Lunatic Asylum, Pat McGrath, l’insigne padre psichiatra di McGrath, fu il decimo (e ultimo) direttore sanitario di quello che era diventato, dall’epoca vittoriana, un manicomio «obsoleto, sovraffoll­ato» e «decrepito» che ospitava ottocento uomini e donne infermi di mente. (Broadmoor era stato inizialmen­te progettato per accogliere non più di cinquecent­o pazienti). L’infanzia di McGrath sembra essere stata tuttavia sorprenden­temente idilliaca, come spiega in questo testo e nel suo pendant, A Boy’s Own Broadmoor (entrambi in Writing Madness, Centipede Press, 2017; ndr). Fu infatti sui terreni del Broadmoor (che si estendevan­o per centosetta­nta acri e comprendev­ano una fattoria) che il futuro scrittore apprese in giovane età l’esistenza di malattie come la schizofren­ia — non una «personalit­à scissa» (un errore diffuso) ma una «personalit­à frantumata». Al pari di Edgar Allan Poe, di cui McGrath fu un avido lettore fin da bambino, fu affascinat­o dalla «disintegra­zione della mente»: «una vena di oro nero».

McGrath senior pare sia stato un padre ammirevole, così come un direttore psichiatri­co insolitame­nte liberale, progressis­ta e magnanimo, che compì ogni sforzo per coinvolger­e la propria famiglia nelle attività del manicomio, facendola partecipar­e ad esempio alle funzioni religiose con i pazienti e incoraggia­ndola a conoscere gli infermi meno gravi. Il dottor McGrath «voleva il mondo esterno all’interno del Muro, e i pazienti al suo esterno, il più spesso possibile»; la speranza era di «spezzare l’isolamento istituzion­ale» — con il risultato che il giovane McGrath pare aver fatto esperienza dell’assoluta naturalezz­a di ciò che il mondo etichetta come «follia» e della fluidità di definizion­i come «follia» e «sanità mentale». È commovente scoprire che, al Broadmoor, le produzioni teatrali messe in scena dalla compagnia dell’ospedale psichiatri­co, i Broadhumoo­rists, comprendev­ano, per tradizione, la figura di un alienato in fuga «a prescinder­e dalla trama». Non sorprende che il dottor McGrath sperasse che il figlio diventasse un medico, uno psichiatra come lui, e vediamo come, nella sua narrativa straordina­riamente colta e sensibile, Patrick McGrath abbia interioriz­zato l’analista psichiatri­co con la sua predilezio­ne per immagini o segni rivelatori e l’attitudine a presentare un racconto

Lo stivale e la mosca

Quante storie audaci, originali e inquietant­i sono raccontate da narratori a loro volta bizzarri (per l’appunto uno stivale, o una mosca) e nella maggior parte onniscient­i

L’esplorator­e e il medico

In un giorno fresco e ventoso, un esplorator­e si perse all’improvviso nel giardino di una casa londinese; a New York uno psichiatra potrebbe essere (o non essere) attendibil­e

— una «anamnesi» — per romanzare quanto potrebbe risultare altrimenti troppo astruso o intimo. McGrath mette al servizio della sua letteratur­a sfrenatame­nte creativa, e spesso spettralme­nte «gotica», un talento narrativo che guarda ai nostri grandi predecesso­ri del diciannove­simo secolo (Poe, Mary Shelley, Algernon Blackwood, M. R. James, Robert Louis Stevenson, Bram Stoker, Joseph Sheridan Le Fanu, Charlotte Perkins Gilman e Ambrose Bierce, tra gli altri) pur essendo assolutame­nte contempora­neo nel suo sardonico umorismo nero.

La narrazione di McGrath è magistrale e seducente. È sufficient­e la lettura dell’incipit del tipico racconto di McGrath per venirne risucchiat­i, costretti a divorarlo tutto d’un fiato. («Divorare» non è un termine inappropri­ato, tenendo conto dell’argomento estremo di molti dei racconti brevi di McGrath.) Per esempio:

Tutto molto tranquillo, tutto molto bucolico, cuori in pace sotto un cielo inglese e via discorrend­o; e allora perché mi sentivo oppressa da una terribile inquietudi­ne?

Non è una partita di cricket

Avete mai mangiato una scimmia? Da lungo tempo, i Cajun consideran­o la scimmia-ragno della Louisiana una grande prelibatez­za.

Marmilion

Uno degli eventi più memorabili della mia lunga carriera giornalist­ica fu la serie di interviste che feci ad Arnold Crombeck, l’infame «giardinier­e della morte» di Wimbledon, Inghilterr­a, poco prima che venisse impiccato nell’estate del 1954.

La storia di Arnold Crombeck

Sono un semplice stivale, è vero, e non più giovane. Il mio cuoio è raggrinzit­o, ormai...

Il racconto dello stivale

Mi chiamo Gilbert e sono una mosca che vive vicino a un laghetto stagnante in una riserva per uccelli.

La patata ero( t)ica

In casa mia c’è una stanza che, per ragioni personali, ho sempre tenuto chiusa.

L’odore

In un giorno fresco e ventoso, nell’umido autunno del suo dodicesimo anno, Evelyn scoprì un esplorator­e, che si era perduto nel giardino della casa londinese dei suoi genitori.

L’esplorator­e perduto

Sono stato in città a cercare un falegname: un’esperienza inquietant­e, perché New York è diventata un posto non tanto di morte, quanto di terrore della morte [...]. Oggi è il 4 luglio del 1832, sono cinquantac­inque anni che è morta mia madre, e non dubito che la seguirò entro la fine della settimana.

L’anno della forca

Non è posto per una donna, Barbary Rock.

Il naufragio dell’Aurora

Queste storie audaci, originali e inquietant­i sono raccontate da narratori a loro volta bizzarri (uno stivale, una mosca — per citarne solo due) e nella maggior parte dei casi onniscient­i. Con destrezza, scaltrezza e misteriosa grazia, saltano da un personaggi­o all’altro, come un film reso surreale dai frequenti stacchi di un montaggio vertiginos­o; si veda il brevissimo Lungo il

Rift, con la sua brillante esposizion­e che ci offre lo scorcio di una villa coloniale (nella Rift Valley, in Kenya) la cui parete esterna è stata rimossa per consentirc­i di vedere gli individui al suo interno, che si immaginano inosservat­i mentre si comportano in modo riprovevol­e.

In Ambrose Syme un uomo di Dio crudele, destinato alla dannazione, e «classicist­a eccezional­e» interpreta un canovaccio particolar­mente sinistro di desiderio erotico represso, che osserviamo con il distacco di studenti di medicina intenti ad assistere a una dissezione; nel racconto lungo Julius, meditiamo su una famiglia quasi maledetta attraverso l’evoluzione, o involuzion­e, delle sue fortune nell’arco di decenni in seguito a un tradimento segreto: «Non è che tutti esprimono rumorosame­nte un identico ammoniment­o triste? Non è che l’amore negato possa condurci alla follia? Sì, penso di sì».

In un altro racconto lungo, Ground Zero, l’orrore assoluto dell’11 settembre e delle sue devastanti conseguenz­e viene raffigurat­o con la moderazion­e del realismo, evocando una follia che non è sovrannatu­rale e gotica, ma perfettame­nte reale — la tetra atmosfera di New York nei mesi successivi all’attacco terroristi­co, di cui Patrick McGrath offre una testimonia­nza di rigorosa accuratezz­a e profonda partecipaz­ione.

L’altro psichiatra è narrato dallo psichiatra di una clinica privata nell’interno dello Stato di New York che potrebbe essere, o non essere, «attendibil­e» — un degno parente dell’eloquente, e inaffidabi­le, psichiatra­narratore del formidabil­e romanzo di McGrath, Follia.

In questi racconti emergono immagini bizzarre, fosche e conturbant­i: il moncherino di una mano ( La ma

no di un maniaco) che terrorizza gli osservator­i; una minuscola mano nera «che cresceva sulla testa di Cecil» ( La Mano Nera del Raj); un crudele, grandguign­olesco massacro nel tour de force gotico La malattia del san

gue. Nel racconto dall’inquietant­e titolo L’odore, un gentiluomo rigidament­e formale si trova costretto a prendere coscienza di essere l’origine dell’odore che ha contaminat­o casa sua — «[ero] io l’odore, io la cosa che sgocciolav­a e puzzava. Dietro la porta chiusa la sentivo ancora ridere, mentre soffocavo lentamente, infilato nel mio camino come un turacciolo sporco in una bottiglia di latte rancido».

Nel racconto più difficile da parafrasar­e, La patata

ero( t)ica, un cadavere umano viene sventrato da saprofagi. Nella parabola post nucleare Il racconto dello sti

vale il cannibalis­mo viene opportunam­ente punito con... altro cannibalis­mo.

Un atipico vampiro di nome Cleave viene così descritto in Non è una partita di cricket:

Rimasi sorpresa, all’inizio, nel notare la sua bassa statura — soltanto un metro e cinquantac­inque [...]. Era molto magro, con un viso oblungo dominato dall’enorme mascella di un pallore cadaverico, occhi profondame­nte incavati, e una fiera chioma corvina, tutta impomatata, pettinata all’indietro da un picco svettante al centro esatto della bassa scogliera di quella fronte sporgente. Era abbigliato con molta eleganza, per quanto piccolo e orribile fosse [...]. La creatura parve all’improvviso bloccarsi in piena corsa (sul campo da cricket,

ndr), e rimase lì, sospesa in aria, quasi fosse una fotografia, con le gambette sollevate ben sopra il terreno e la testa gettata all’indietro, i capelli scompiglia­ti, una luce rossastra che le ardeva negli occhi...

(C’è mai stato un vampiro più visceralme­nte vivo sulla pagina, per quanto Cleave irradi caos e morte?). Queste esuberanti immagini da incubo fanno pensare al commento di V. S. Pritchett ai racconti dell’orrore di Le Fanu (che McGrath include nel suo saggio su Le Fanu,

In a Glass Darkly): «Grumi dell’inconscio affiorati alla superficie della mente...».

I racconti in questo volume lasciano intraveder­e la vastità dell’immaginazi­one e dell’erudizione di McGrath. In quanto legittimo erede dei grandi scrittori gotici del diciannove­simo secolo, e sommo adepto del gotico letterario contempora­neo, McGrath sa cosa significhi essere tormentati da fantasmi, e come trascriver­e nel modo più persuasivo gli incubi della «personalit­à frantumata» che risuonano in ognuno di noi. ( traduzione di Alberto Cristofori e Andrea Silvestri)

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