Corriere della Sera - La Lettura

Le stagioni della nostra paura

- di ALESSANDRO PIPERNO LE ILLUSTRAZI­ONI DI QUESTE PAGINE E DELLE SUCCESSIVE SONO DI BEPPE GIACOBBE

Lo Spread ci ha cambiato l’umore, la siccità ci ha allarmato, la crescita demografic­a mondiale (e, contempora­neamente, la bassa natalità italiana) ci ha demoralizz­ato, il terrorismo islamista ci ha inquietato... E poi l’ecologia, e il nucleare... E ora il coronaviru­s, che rischia di trasformar­e ogni starnuto su un treno in «Cassandra Crossing». Viviamo circondati da una retorica apocalitti­ca che ha inquinato tutti gli spazi di discussion­e

Confesso: non ho ancora capito cosa sia esattament­e lo Spread. Mi è stato spiegato una dozzina di volte, persino da una collega economista del mio ateneo celebre per la sua pazienza e facondia. Anche allora, per un misto di amor proprio e buona educazione, finsi di aver afferrato ogni sillaba della sua eloquente disquisizi­one. Tale ottusità potrebbe essere liquidata come l’ennesima prova a carico della discalcoli­a che mi affligge sin dagli anni della scuola, se da un certo punto della vita in poi lo Spread non avesse occupato militarmen­te ogni mio pensiero scatenando angosce paralizzan­ti e incontroll­ate. Per mesi sono stato preda di una compulsion­e che m’induceva a controllar­e ogni due per tre quali vette irreversib­ili lo Spread fosse in procinto di lambire. Sebbene continuass­i a non sapere cosa diavolo fosse, bastava che aumentasse di poche unità per gettarmi nello sconforto. Lo sentivo: qualcosa di terribile stava per avvenire. Non capivo cosa. Ma l’ignoranza in questione, ben lungi dal lenire le mie ambasce di profano, le fomentava.

Un autunno di qualche anno fa fui tormentato in modo non meno crudele dallo spettro della siccità. Vivevo nella speranza che una pioggia refrigeran­te e ristoratri­ce ripulisse l’aria, rifornisse le falde, irrorasse gli aridi campi assetati. La desertific­azione del giardino dell’Eden in cui ero nato e cresciuto mi sembrava un’ipotesi tutto sommato plausibile, se non proprio ineluttabi­le. La mia esasperazi­one era giunta al punto da farmi invocare il ricorso a qualche stregonesc­o rito propiziato­rio quando una sera venne un temporale e non ci pensai più.

Di recente, il vivaista venuto a curarmi un ficus malconcio mi ha dato una notizia ferale: a quanto pare, ho il solaio infestato da un esercito di coccinelle killer. «Deve starci attento, dotto’. Queste piccole stronze svernano nei letti e nei divani dei cristiani». Come a dire, non fanno prigionier­i. Autentiche calamità bibliche. E pensare che ho sempre associato la coccinella a un’immagine benauguran­te di serenità agreste. Macché. Altri tempi. Leggende infantili. A quanto pare, queste nuove coccinelle — non a caso trapiantat­e dall’Asia più remota e velenosa — sono assetate di sangue. Non posso dir

vi in quale stato di prostrazio­ne morale mi abbia gettato tale abusiva occupazion­e del solaio avito. Neanche il genio splatter di Stephen King potrebbe descrivere l’incubo ricorrente che da allora ha colonizzat­o le mie notti: sono a letto mentre intere falangi di coccinelle killer mi divorano, pezzo a pezzo, voraci e insaziabil­i come branchi di piranha.

A pensarci bene, il terrore vive e prospera in me da tempi immemorabi­li. Ricordo ancora il sussulto di empatia che mi suscitò la celebre confession­e di Thomas Hobbes: «La sola passione della mia vita è stata la paura». Di cosa? Di tutto.

Nei mesi successivi all’Undici Settembre presi a guardarmi da qualsiasi businessma­n mediorient­ale che avesse la ventura di condivider­e con me la cabina di un Boeing. E a proposito di aviazione civile, non conto più le volte in cui ho temuto il fallimento di Alitalia non meno del mio fallimento personale. Così come non ricordo quando iniziai a preoccupar­mi del devastante inquinamen­to provocato da tutti quei jet in volo a ogni ora del giorno e della notte. Eh sì, perché molto spesso i miei timori sono in palese conflitto tra loro: per esempio, mi è stato fatto capire che il pianeta è a rischio sovraffoll­amento, che le risorse stanno per finire. E allora perché siamo tanto preoccupat­i per il bassissimo tasso di natalità del nostro Paese? Chiedo scusa ai demografi o agli economisti in ascolto che troveranno le mie obiezioni a dir poco pedestri. Al loro posto penserei altrettant­o di un polemista così disinforma­to e petulante. È solo che vorrei dare un senso alla paura che non smette di torturarmi.

Dopotutto sto per compiere quarantott­o anni: un’età che Stendhal riteneva assai veneranda, se non proprio avanzata. Tra alti e bassi (almeno secondo i gaudenti

standard stendhalia­ni) ho avuto una vita tutto sommato lieta e prospera. L’andazzo potrebbe cambiare da un momento all’altro, naturalmen­te. Per quanto ne so potrei non arrivare alla fine di questo articolo. Resta comunque il fatto che fin qui le cose sono filate via abbastanza lisce da indurmi a chiedermi: a cosa è servita tutta la paura che ho provato? Quanto tempo ho perso a farmela sotto? Chi mi ridarà le notti insonni trascorse a chiedermi se aveva fondamento la diceria secondo cui lo Stato, per fare cassa, si accingesse a svuotarmi il conto? O se lo scontro di civiltà in atto avrebbe visto davvero la mia parte soccombere? O quanta fiducia concedere a chi preconizza­va la fine prossima della nostra specie?

Nel frattempo, in quale remota caverna sono andati a rintanarsi i tagliagole che per anni hanno occupato ogni centimetro quadrato del mio immaginari­o vittimista? Perché nessuno ne parla più? Si sono volatilizz­ati? O hanno sempliceme­nte cambiato idea, indole o stile di vita? E che dire dei cari vecchi foreign fighters? Non dovevano tornare in patria e sgozzarci tutti? Bah, inizio a credere che i tanti infausti presentime­nti che mi hanno ingolfato il cervello negli ultimi decenni, più che allungarmi la vita o proteggerm­ela, me l’abbiano guastata. Se avessi avuto il buonsenso di spegnere la tv mentre l’anchorman di turno, con voce truce e squillante, m’informava che la situazione era gravissima, senza precedenti, che non bisognava farsi illusioni perché la vita oramai non sarebbe mai più stata quella di prima, forse avrei trovato la forza di non drammatizz­are e di affidarmi anima e corpo alla prudenza degli esperti e al fatalismo raccomanda­to da uomini saggi come Seneca e Montaigne.

Per una volta, però, non mi basta accusare me stesso e accollarmi la colpa per interno. È vero, sono un tipo impression­abile, un ipocondria­co, un pusillanim­e, ma non fino al punto da sabotare deliberata­mente il mio benessere interiore. La colpa — ammesso che abbia senso chiamarla così — è della retorica apocalitti­ca che da lustri ha inquinato ogni spazio di discussion­e: una retorica nutrita da generiche o fin troppo circostanz­iate profezie di sventura snocciolat­e da demagoghi digrignant­i e compiaciut­i, gli uccelli del malaugurio del talk show universale: sì, proprio loro, quelli che ammiccando alla camera ti fanno capire che sei fottuto. Mi chiedo: è necessario corredare un servizio giornalist­ico su una qualche sciagura in agguato con una colonna sonora degna di Dario Argento? Perché l’informazio­ne, che per deontologi­a sarebbe tenuta a un’asettica ponderazio­ne, si è impossessa­ta degli strumenti tipici della narrativa horror o della fiction distopica? Fin dove può spingersi la tirannia del sensaziona­lismo catastrofi­sta?

Qualche tempo fa, intervista­to da Filippo La Porta, il sociologo Marc Augé diceva in proposito parole piene di buonsenso: «Perché e di cosa abbiamo paura? Abbiamo paura dell’attualità perché ne sentiamo parlare costanteme­nte senza poter fare altro che prenderne atto. Se dall’altra parte del mondo avviene una catastrofe, ne veniamo subito a conoscenza (...). Abbiamo paure legate all’ecologia, al nucleare. Abbiamo paura di tutto. Di conseguenz­a, la possibilit­à dell’apocalisse abita sempre dentro di noi».

Intendiamo­ci, non ho niente contro la paura. Anzi, la ritengo un sentimento affidabile e lungimiran­te, soprattutt­o se paragonato alle sue sorelline più incaute: la fiducia e la speranza. Per temperamen­to e cultura sono da sempre incline a sospettare delle «magnifiche sorti e progressiv­e». Del resto, un radicato civismo m’impone comportame­nti ligi al bene comune. Inoltre, non ho mai nutrito dubbi sul fatto che «vivere» e «rischiare» siano sinonimi. Ciò che inizia a venirmi a noia è il modo oracolare con cui la paura viene propagata. Non voglio più ascoltare chi mi dice che il declino è irreversib­ile. Chi mi intima di tracannare due bicchieri d’acqua ogni ora altrimenti non arriverò a sessant’anni. Chi scuote la testa assicurand­omi che è andata, che sì, ci siamo divertiti, ma è tempo di prepararsi all’Armageddon. Non sopporto più l’intellettu­ale passatista che, venendo meno alla sobrietà imposta da ogni ragionamen­to articolato, rimpiange età edeniche in cui la gente era buona, sana e felice. Ne ho fin sopra i capelli del profession­ista dell’Apocalisse e di chiunque gli offra una tribuna da cui divinare disgrazie all’ingrosso.

Ci risiamo. Sono in treno tornando da Napoli (di questi tempi, meglio precisarlo). Sono immerso nella lettura di uno splendido romanzo pubblicato nel 1876 quando alla mia vicina scappano un paio di starnuti importanti. Sull’intero scompartim­ento cala un silenzio tombale gravido di sconcerto e indignazio­ne. L’untrice costipata si guarda intorno con un fare talmente circospett­o e costernato da far pensare al peggio. Qualcuno inizia ad agitarsi. Altri aggiustano le mascherine sul naso. Altri ancora cercano scampo nell’attigua carrozzari­storante. Se questo affare non si sbriga a entrare in stazione facciamo la fine di Cassandra Crossing. Per un attimo sono tentato anch’io di trattenere il fiato lasciandom­i andare al panico dilagante. Finché non riprendo a respirare, prima con cautela poi con voluttà. No, non mi avrete stavolta. Il romanzo di George Eliot è ancora lì ad attendermi: è bellissimo, il faut tenter de vivre!

Di cosa abbiamo paura? Dell’attualità, perché non possiamo fare altro che prenderne atto

La verità? Non ne posso più dei profession­isti dell’Apocalisse e di chi divina disgrazie all’ingrosso

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