Corriere della Sera - La Lettura
Le stagioni della nostra paura
Lo Spread ci ha cambiato l’umore, la siccità ci ha allarmato, la crescita demografica mondiale (e, contemporaneamente, la bassa natalità italiana) ci ha demoralizzato, il terrorismo islamista ci ha inquietato... E poi l’ecologia, e il nucleare... E ora il coronavirus, che rischia di trasformare ogni starnuto su un treno in «Cassandra Crossing». Viviamo circondati da una retorica apocalittica che ha inquinato tutti gli spazi di discussione
Confesso: non ho ancora capito cosa sia esattamente lo Spread. Mi è stato spiegato una dozzina di volte, persino da una collega economista del mio ateneo celebre per la sua pazienza e facondia. Anche allora, per un misto di amor proprio e buona educazione, finsi di aver afferrato ogni sillaba della sua eloquente disquisizione. Tale ottusità potrebbe essere liquidata come l’ennesima prova a carico della discalcolia che mi affligge sin dagli anni della scuola, se da un certo punto della vita in poi lo Spread non avesse occupato militarmente ogni mio pensiero scatenando angosce paralizzanti e incontrollate. Per mesi sono stato preda di una compulsione che m’induceva a controllare ogni due per tre quali vette irreversibili lo Spread fosse in procinto di lambire. Sebbene continuassi a non sapere cosa diavolo fosse, bastava che aumentasse di poche unità per gettarmi nello sconforto. Lo sentivo: qualcosa di terribile stava per avvenire. Non capivo cosa. Ma l’ignoranza in questione, ben lungi dal lenire le mie ambasce di profano, le fomentava.
Un autunno di qualche anno fa fui tormentato in modo non meno crudele dallo spettro della siccità. Vivevo nella speranza che una pioggia refrigerante e ristoratrice ripulisse l’aria, rifornisse le falde, irrorasse gli aridi campi assetati. La desertificazione del giardino dell’Eden in cui ero nato e cresciuto mi sembrava un’ipotesi tutto sommato plausibile, se non proprio ineluttabile. La mia esasperazione era giunta al punto da farmi invocare il ricorso a qualche stregonesco rito propiziatorio quando una sera venne un temporale e non ci pensai più.
Di recente, il vivaista venuto a curarmi un ficus malconcio mi ha dato una notizia ferale: a quanto pare, ho il solaio infestato da un esercito di coccinelle killer. «Deve starci attento, dotto’. Queste piccole stronze svernano nei letti e nei divani dei cristiani». Come a dire, non fanno prigionieri. Autentiche calamità bibliche. E pensare che ho sempre associato la coccinella a un’immagine benaugurante di serenità agreste. Macché. Altri tempi. Leggende infantili. A quanto pare, queste nuove coccinelle — non a caso trapiantate dall’Asia più remota e velenosa — sono assetate di sangue. Non posso dir
vi in quale stato di prostrazione morale mi abbia gettato tale abusiva occupazione del solaio avito. Neanche il genio splatter di Stephen King potrebbe descrivere l’incubo ricorrente che da allora ha colonizzato le mie notti: sono a letto mentre intere falangi di coccinelle killer mi divorano, pezzo a pezzo, voraci e insaziabili come branchi di piranha.
A pensarci bene, il terrore vive e prospera in me da tempi immemorabili. Ricordo ancora il sussulto di empatia che mi suscitò la celebre confessione di Thomas Hobbes: «La sola passione della mia vita è stata la paura». Di cosa? Di tutto.
Nei mesi successivi all’Undici Settembre presi a guardarmi da qualsiasi businessman mediorientale che avesse la ventura di condividere con me la cabina di un Boeing. E a proposito di aviazione civile, non conto più le volte in cui ho temuto il fallimento di Alitalia non meno del mio fallimento personale. Così come non ricordo quando iniziai a preoccuparmi del devastante inquinamento provocato da tutti quei jet in volo a ogni ora del giorno e della notte. Eh sì, perché molto spesso i miei timori sono in palese conflitto tra loro: per esempio, mi è stato fatto capire che il pianeta è a rischio sovraffollamento, che le risorse stanno per finire. E allora perché siamo tanto preoccupati per il bassissimo tasso di natalità del nostro Paese? Chiedo scusa ai demografi o agli economisti in ascolto che troveranno le mie obiezioni a dir poco pedestri. Al loro posto penserei altrettanto di un polemista così disinformato e petulante. È solo che vorrei dare un senso alla paura che non smette di torturarmi.
Dopotutto sto per compiere quarantotto anni: un’età che Stendhal riteneva assai veneranda, se non proprio avanzata. Tra alti e bassi (almeno secondo i gaudenti
standard stendhaliani) ho avuto una vita tutto sommato lieta e prospera. L’andazzo potrebbe cambiare da un momento all’altro, naturalmente. Per quanto ne so potrei non arrivare alla fine di questo articolo. Resta comunque il fatto che fin qui le cose sono filate via abbastanza lisce da indurmi a chiedermi: a cosa è servita tutta la paura che ho provato? Quanto tempo ho perso a farmela sotto? Chi mi ridarà le notti insonni trascorse a chiedermi se aveva fondamento la diceria secondo cui lo Stato, per fare cassa, si accingesse a svuotarmi il conto? O se lo scontro di civiltà in atto avrebbe visto davvero la mia parte soccombere? O quanta fiducia concedere a chi preconizzava la fine prossima della nostra specie?
Nel frattempo, in quale remota caverna sono andati a rintanarsi i tagliagole che per anni hanno occupato ogni centimetro quadrato del mio immaginario vittimista? Perché nessuno ne parla più? Si sono volatilizzati? O hanno semplicemente cambiato idea, indole o stile di vita? E che dire dei cari vecchi foreign fighters? Non dovevano tornare in patria e sgozzarci tutti? Bah, inizio a credere che i tanti infausti presentimenti che mi hanno ingolfato il cervello negli ultimi decenni, più che allungarmi la vita o proteggermela, me l’abbiano guastata. Se avessi avuto il buonsenso di spegnere la tv mentre l’anchorman di turno, con voce truce e squillante, m’informava che la situazione era gravissima, senza precedenti, che non bisognava farsi illusioni perché la vita oramai non sarebbe mai più stata quella di prima, forse avrei trovato la forza di non drammatizzare e di affidarmi anima e corpo alla prudenza degli esperti e al fatalismo raccomandato da uomini saggi come Seneca e Montaigne.
Per una volta, però, non mi basta accusare me stesso e accollarmi la colpa per interno. È vero, sono un tipo impressionabile, un ipocondriaco, un pusillanime, ma non fino al punto da sabotare deliberatamente il mio benessere interiore. La colpa — ammesso che abbia senso chiamarla così — è della retorica apocalittica che da lustri ha inquinato ogni spazio di discussione: una retorica nutrita da generiche o fin troppo circostanziate profezie di sventura snocciolate da demagoghi digrignanti e compiaciuti, gli uccelli del malaugurio del talk show universale: sì, proprio loro, quelli che ammiccando alla camera ti fanno capire che sei fottuto. Mi chiedo: è necessario corredare un servizio giornalistico su una qualche sciagura in agguato con una colonna sonora degna di Dario Argento? Perché l’informazione, che per deontologia sarebbe tenuta a un’asettica ponderazione, si è impossessata degli strumenti tipici della narrativa horror o della fiction distopica? Fin dove può spingersi la tirannia del sensazionalismo catastrofista?
Qualche tempo fa, intervistato da Filippo La Porta, il sociologo Marc Augé diceva in proposito parole piene di buonsenso: «Perché e di cosa abbiamo paura? Abbiamo paura dell’attualità perché ne sentiamo parlare costantemente senza poter fare altro che prenderne atto. Se dall’altra parte del mondo avviene una catastrofe, ne veniamo subito a conoscenza (...). Abbiamo paure legate all’ecologia, al nucleare. Abbiamo paura di tutto. Di conseguenza, la possibilità dell’apocalisse abita sempre dentro di noi».
Intendiamoci, non ho niente contro la paura. Anzi, la ritengo un sentimento affidabile e lungimirante, soprattutto se paragonato alle sue sorelline più incaute: la fiducia e la speranza. Per temperamento e cultura sono da sempre incline a sospettare delle «magnifiche sorti e progressive». Del resto, un radicato civismo m’impone comportamenti ligi al bene comune. Inoltre, non ho mai nutrito dubbi sul fatto che «vivere» e «rischiare» siano sinonimi. Ciò che inizia a venirmi a noia è il modo oracolare con cui la paura viene propagata. Non voglio più ascoltare chi mi dice che il declino è irreversibile. Chi mi intima di tracannare due bicchieri d’acqua ogni ora altrimenti non arriverò a sessant’anni. Chi scuote la testa assicurandomi che è andata, che sì, ci siamo divertiti, ma è tempo di prepararsi all’Armageddon. Non sopporto più l’intellettuale passatista che, venendo meno alla sobrietà imposta da ogni ragionamento articolato, rimpiange età edeniche in cui la gente era buona, sana e felice. Ne ho fin sopra i capelli del professionista dell’Apocalisse e di chiunque gli offra una tribuna da cui divinare disgrazie all’ingrosso.
Ci risiamo. Sono in treno tornando da Napoli (di questi tempi, meglio precisarlo). Sono immerso nella lettura di uno splendido romanzo pubblicato nel 1876 quando alla mia vicina scappano un paio di starnuti importanti. Sull’intero scompartimento cala un silenzio tombale gravido di sconcerto e indignazione. L’untrice costipata si guarda intorno con un fare talmente circospetto e costernato da far pensare al peggio. Qualcuno inizia ad agitarsi. Altri aggiustano le mascherine sul naso. Altri ancora cercano scampo nell’attigua carrozzaristorante. Se questo affare non si sbriga a entrare in stazione facciamo la fine di Cassandra Crossing. Per un attimo sono tentato anch’io di trattenere il fiato lasciandomi andare al panico dilagante. Finché non riprendo a respirare, prima con cautela poi con voluttà. No, non mi avrete stavolta. Il romanzo di George Eliot è ancora lì ad attendermi: è bellissimo, il faut tenter de vivre!
Di cosa abbiamo paura? Dell’attualità, perché non possiamo fare altro che prenderne atto
La verità? Non ne posso più dei professionisti dell’Apocalisse e di chi divina disgrazie all’ingrosso