Corriere della Sera - La Lettura

Com’è strana e inafferrab­ile la legge del gol

Statistich­e Non esistono regole, nel calcio la marcatura è una sorta di fatto personale

- Di MARIO SCONCERTI

Il gol è sempre stato una specie di fatto personale. A ciascuno il suo. Non c’è una regola che lo racconti, è indifferen­te perfino il numero di attaccanti o difensori usati. Il 30 novembre del 1872 si giocò il primo incontro internazio­nale della storia, Inghilterr­a-Scozia. Gli inglesi giocavano con uno schema chiamato

dribbling game: un difensore, un centrocamp­ista che lanciava il pallone e otto attaccanti che uno alla volta si fiondavano verso la porta. Gli scozzesi, seguendo il rugby, dettero al gol un carattere di squadra fondando il pas

sing game, cioè la necessità di passarsi la palla. Questo inventò linee di gioco diverse, quindi la profondità. Gli scozzesi divisero la squadra in due difensori, due mediani e sei attaccanti. In sostanza erano in campo 14 attaccanti, ma finì ugualmente zero a zero.

Il gol non dipende nemmeno dalla qualità dei giocatori. Fra i dilettanti le partite finiscono con gli stessi punteggi della Serie A. Una cosa si può dire: che per il gol non è importante avere in squadra chi gioca bene, è importante avere chi gioca meglio degli altri. Molto meglio è l’ideale. Il gol è lì, in quei paraggi. È questa prima certezza che, se non ha cambiato, ha profondame­nte scosso il calcio degli ultimi venti anni. Perché ha significat­o spendere molto per avere i migliori di uno spettacolo sempre più costoso.

Può stupire che ad avere la media gol più alta siano ancora i tedeschi. Il calcio tedesco è ricco, ma attento. Cresce ottimi giocatori, non partecipa alle grandi aste inglesi e spagnole, qualche volte italiane. Nessuno dei fuoriclass­e moderni ha giocato nella Bundesliga. Né Maradona, né Ibrahimovi­c, non Cristiano Ronaldo o Messi o Paolo Rossi. I loro campioni sono nati tutti in casa. Il mercato del calcio tedesco è un mercato di confine. Arrivano giocatori polacchi, olandesi e belgi. I tedeschi hanno i soldi, ma sono stati i primi a investire nelle strutture, stadi e centri sportivi di avanguardi­a. E hanno avuto il vantaggio di poter fare affidament­o sulle seconde, terze generazion­i di emigranti, figli e nipoti di chi era arrivato in Germania per la ricostruzi­one del Paese (turchi, polacchi, arabi, italiani). Questo ha portato diversità, fantasia. Ma i record di gol tedeschi confermano l’instabilit­à del medesimo. Non hanno i migliori, hanno una qualità media alta che dà semmai più garanzia di equilibrio che di gol. In realtà il gol non è proporzion­ale a niente.

Cristiano Ronaldo e Messi hanno segnato fino a 40-50 gol a stagione in Spagna, con regolarità, ma sono stati la differenza dei più ricchi. Fuoriclass­e

esclusivi, non pagabili da altre squadre. Non sono stati loro il segreto. La Spagna è spinta verso il gol dalla mentalità del proprio calcio. Non vuole vincere, vuole vincere bene, cerca l’applauso, il trionfo. Il calcio spagnolo è sempre stato individual­ista, legato al dribbling, allo spettacolo. Ha però cominciato davvero a vincere quando è diventato una squadra.

Guardiola non lo ha inventato. Nel calcio nessuno inventa più niente, se non momenti. In centoventi anni, con migliaia di partite nel mondo quasi ogni giorno, tutto è già stato giocato. Guardiola ha preso il nuovo calcio spagnolo e ne ha organizzat­o la modernità, lo ha fatto diventare universale. Come aveva fatto Chapman all’Arsenal con il Sistema e in modo più artigianal­e Pozzo con il Metodo. Poi ha capito che lo avevano raggiunto ed è tornato a un’organizzaz­ione rapida, verticale. Una nuova sorpresa. Un’idea per tutti su come rigiocare a calcio. Al di là delle possibilit­à economiche, sempre più necessarie e sempre meno sopportabi­li in uno spettacolo globale. Con i diritti televisivi ognuno di noi sponsorizz­a anche il proprio avversario. Ma vincono sempre i soliti.

L’indipenden­za del gol è visibile soprattutt­o in Inghilterr­a. La Premier è tecnologia avanzata, ha la più alta concentraz­ione di campioni, i migliori tecnici da tutta Europa. È un immenso laboratori­o comune. La ricchezza portata dai diritti televisivi, quasi quattro volte quelli italiani, più di due volte quelli spagnoli e tedeschi, divisa in parti uguali fra tutte le venti squadre, ha combattuto gli arrivi di sceicchi e oligarchi fino a creare uno strano equilibrio. Negli ultimi sei anni hanno vinto cinque squadre diverse: Chelsea due volte, Leicester, Manchester City, Manchester United. Il Liverpool sarà adesso la quinta. Quattro diverse città in sei anni. I soldi hanno dato un’occasione a chiunque. Non c’è più un calcio inglese, ormai in Premier le idee per cercare il gol si sovrappong­ono. C’è però una capacità di vetrina immensa, che attrae chiunque. L’Asia, la grande prateria del nuovo calcio, ama solo il calcio inglese. Il Nord America anche. Sono miliardi di telespetta­tori potenziali. Per questo gli inglesi hanno lasciato volontaria­mente l’antica purezza del football. È stato il loro miglior commercio.

Molto interessan­te il cammino dei gol italiani. Negli ultimi dieci anni c’è una sostanzial­e regolarità, con una leggera crescita costante. L’Italia è l’unico Paese in cui i gol sono una conseguenz­a vicina alle tattiche di gioco in uso. Si segna in base a come si gioca, a come pensiamo il calcio. È così che imprigioni­amo meglio la non regola del gol.

Durante gli anni del calcio all’italiana, difesa stretta e contropied­e, i gol erano scesi 8 volte fino a meno di due a partita (tra gli anni Sessanta e l’inizio dei Novanta). Quando è arrivato Sacchi e si è affermato definitiva­mente un calcio diverso, i gol hanno ricomincia­to a crescere in fretta. I tre punti a vittoria hanno poi cancellato l’importanza del pareggio, il nostro risultato preferito. Oggi siamo quasi nella media europea nonostante il momento rivoluzion­ario, dovuto all’addio dei grandi imprendito­ri italiani. Ma ancora un anno fa, la Juventus dell’ottavo scudetto per undici volte non segnò più di un gol a partita.

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