Corriere della Sera - La Lettura
L’orso finisce nella tagliola ma poi scopre che si va avanti
L’uomo racconta di avere sognato di essere un orso, la zampa è intrappolata in una tagliola. La moglie si avvicina e gli sorride. Quel sorriso per lui è malefico, la donna che amava ora gli pare la protagonista di Misery di Stephen King. L’orso si strappa la zampa e fugge. L’uomo dice alla mediatrice che quell’orso è lui dopo la separazione: gli manca un pezzo di sé. La donna invece respira, ha riscoperto i suoi spazi, libera dalla costrizione del marito geloso e dominante, sempre pronto a disprezzarla. Le coppie che chiedono la mediazione familiare, spontaneamente o inviate dal giudice, a volte iniziano così, gravide di sentimenti tossici: rancore, colpa, impotenza. L’intervento del mediatore, spiegano Francesco Canevelli e Marina Lucardi in Coppie in mediazione (ApertaMente Web), è guidato da un’idea: la fine della coppia mette il soggetto a contatto con una parte di sé scoperta. L’animale senza un arto, la bambina in gabbia, il malato abbandonato: «Mi hai lasciato e ora chi mi completerà?». Quella parte molti non la vogliono vedere e quindi accusano l’altro o si arrendono. Dell’altro vedono solo una faccia: il carnefice, la strega, il principe o la principessa deludente. Il mediatore non cura psicopatologie e non opera su obbligo della legge, gli autori sono chiari su questo punto. Si accerta che i richiedenti abbiano una molteplicità interna residua e che, aiutati, diventino capaci di riconoscere la stessa molteplicità nell’altro: «È assente ma è un buon padre e io sono salda anche da sola». Se il mediatore sa tirare fuori queste visioni alternative di sé e dell’altro, la negoziazione può iniziare: un contratto tra due persone in cerca di una nuova meta comune.