Corriere della Sera - La Lettura
Il tempo è la bugia più grande che ci sia
Un romanzo su una sfida poco appariscente ma pericolosa e certe volte letale: la giovinezza. Dopo l’infanzia quasi mitica, tra decine di zii-nonni e altri anziani di famiglia, raccontata nel precedente Il mare dove non si tocca, nel nuovo romanzo Cadrò, sognando di volare (Mondadori) Fabio Genovesi affronta i vent’anni: potrebbero essere i suoi veri vent’anni, oppure no, perché lo stile di Genovesi è sempre così intimo e personale che non si sa mai se si stia leggendo una storia autobiografica o una pura invenzione. E, in fondo, poco importa.
Il tempo, nella vita del giovane protagonista (solo alla fine del libro lo scrittore lo chiama «Fabio»), ha un ruolo tanto importante ma anche tanto ambiguo che il romanzo si apre proprio su questa ambiguità, su un «tempo perso», il primo di tanti tempi persi che torneranno spesso nella storia (un capitolo si intitola addirittura Anni buttati). Sì, perché il protagonista avvia la narrazione ricordando di quella volta in cui si era perso l’estate, a sette anni, nel 1982, costretto a letto da un’ingessatura a una gamba. Niente mare, niente vacanza, niente spiaggia. E così i suoi genitori avevano deciso di restituirgli l’estate «ricreandola» appena guarito: il 10 dicembre, tra stufette accese e teli da spiaggia distribuiti sul pavimento di casa mentre fuori si gelava, il bambino aveva potuto passare la sua «giornata felice» come al mare, anzi perfino meglio: uno zio imbacuccato fino al naso si era presentato alla porta per portargli un cesto con dentro il «cocco fresco».
Ormai però quell’epoca è lontana, siamo nel 1998 e il tempo perduto e quello ritrovato vibrano insieme, ora che il ragazzo ha 24 anni e sta preparando, o almeno così dice, la tesi di Giurisprudenza. Non che nutra una passione per la legge: ha scelto quella facoltà solo di riflesso, perché la cuginetta compagna di giochi che sognava di fare l’avvocato è morta in mare salvando una bagnante davanti a lui, o forse proprio al suo posto — così lui ha preso, in famiglia e nella propria coscienza, il posto di lei. E in attesa di laurearsi, è pronto a partire per «la» vacanza, quella tanto attesa, non più l’estate infantile sulle spiagge della Versilia o nel mare cattivo che ha inghiottito la cugina, ma la vacanza con i compagni dell’Erasmus a Siviglia, scatenata e piena di conquiste, come annunciano le cartoline con cui gli amici lo sollecitano a raggiungerli.
Peccato che tra le cartoline ci sia anche quella «di precetto»: non per fare il militare, no, il ragazzo è obiettore di coscienza e ha scelto il servizio civile. Solo che ha dimenticato di firmare il «rinvio» e il momento di partire è giunto; Fabio sta per perdersi un’altra estate. E così parte: gli tocca un anno da obiettore, come educatore in una «scuola di preti» sulle Alpi Apuane, invece delle follie di Siviglia.
La giovinezza del ragazzo, che già friggeva a valle, sui monti desolati entra in ebollizione: dovrà «stagionare per un anno in mezzo al nulla», perché la scuola è chiusa da anni e a popolare il vecchio convento rimangono solo pochi strambi abitanti. Un prete tuttofare, don Mauro, perennemente intento a sistemare un pulmino che non s’è mai mosso di lì. Una domestica, Flora, che si aggira torva scaricandogli addosso ogni mansione, e tra le mansioni, quella di badare a don Basagni, anziano direttore della scuola immobilizzato a letto: occorre accudirlo, lavarlo, ma soprattutto affrontarlo, cosa che nessuno osa fare perché il duro prete, ex missionario con un passato avventuroso in Amazzonia, detesta la compagnia