Corriere della Sera - La Lettura
Scienza in versi scienza di versi
Novecento È stata una figura atipica nel panorama letterario italiano, quella di Leonardo Sinisgalli, ingegnere, profondamente legato alla sua formazione. Le opere vanno viste come un tutto organico, «laminette» comprese
Leonardo Sinisgalli è stato un poeta davvero sui generis. In una tradizione sostanzialmente umanistica, di poeti-poeti e letterati di professione, ha portato infatti sempre con sé la propria formazione scientifica, non solo per metterla a confronto ma per farla interagire in profondità coi processi della creazione poetica.
La scienza, la tecnica, la progettazione, il progresso: non si è trattato dunque di un semplice interesse, ma di un’attitudine della mente, di una conformazione dello sguardo, della priorità riconosciuta all’idea stessa del fare. Introducendo la raccolta di Tutte le poesie, che ha ben curato per Mondadori, Franco Vitelli ha addebitato la scarsa popolarità di Sinisgalli proprio al particolare carattere di una «natura che rifuggiva dagli schemi populisti e preferiva rifugiarsi dentro gli orizzonti di una cultura alta, raffinata e spesso controcorrente». Così si può cogliere già qui uno degli attriti fondamentali da cui scaturiscono i suoi versi. Questo poeta nato nel 1908 nella piccola Montemurro, in Lucania, e laureatosi a Roma in ingegneria industriale dopo aver studiato matematica e fisica, ha non solo messo in relazione il retaggio tellurico con le prospettive scientifiche e l’apertura al futuro, ma dal loro cortocircuito è stato anche letteralmente divorato.
È vero infatti che se non ha avuto una formazione in senso proprio umanistica, Sinisgalli ha coltivato come pochi altri (Paolo Volponi, ad esempio) un grande e impossibile sogno umanistico: il rapporto armonico tra natura e cultura, la reciprocità tra le ragioni del cuore e quelle delle mente,l’ equilibrio eanz il’ inter animazione tra l’ intelligenza delle cose e la loro necessità intrinseca. E il modo forse più giusto di seguire la sua vicenda poetica (che del resto lo stesso autore considerava come «un unico libro che comincia con la prima poesia e finisce con l’ultima») è appunto quello di dare il rilievo dovuto agli attriti, alle impossibilità, a tutto ciò che in essa sussiste, ed è tanto, di non composto. «Tutto quello che io so non mi giova/ a cancellare tutto quello che ho visto», scrive pensando come sempre alla sua terra d’origine. Il che significa che lo studio, la razionalità, i proponimenti, e così il futuro e l’utopia, entrano in conflitto col passato che ancora vive, con l’evidenza di ciò che accade, con una diseguaglianza e una sofferenza che sembrerebbero irredimibili.
L’opera poetica di Sinisgalli si deve dunque comprendere all’interno di un progettualità più ampia, tutta rivolta a contrastare il mito dell’ autosufficienza poetica. Non va dimenticato, ad esempio, che ebbe l’incarico di art director prima per l’Olivetti e poi per la Pirelli, e che tra l’altro fondò e diresse due importanti riviste quali appunto «Pirelli» e «Civiltà delle Macchine», il periodico di Finmeccanica.
All’interno di questo grande cantiere, la poesia assolve però a un ruolo molto particolare e in ultima istanza contraddittorio. Chiamata a dare spessore, profondità e concretezza umana al rapporto con la realtà, finisce infatti per mandare in frantumi l’architettura che pure era destinata a edificare, come se la sabotasse dal di dentro. Visto di scorcio e nella prospettiva di un possibile progresso, la sua storia di poesia termina anzi drammaticamente, nella sfiducia, nell’amarezza, soprattutto nella neutralizzazione reciproca e nella dispersione dei tanti pezzi che avevano composto l’antico disegno. E questo accade sia dal punto di vista storico-esistenziale («Non è un orto/ o un giardino/ il cimitero dovei o sono sepolto ./ È un regno spento, muto ./ Qui l’amore è perduto./ Qui la festa è finita»), sia da quello che riguarda l’intenzione e gli strumenti espressivi («Il mio sforzo per scrivere versi è stato appunto il disprezzo della mia saggezza»).
Non si deve pensare in ogni caso a un autore estraneo alla poesia del suo tempo. Anzi, gli svolgimenti poetici di Sinisgalli sono piuttosto in linea con alcuni grandi snodi del Novecento. Il poeta-ingegnere è stato ermetico negli anni Trenta (tanto più grazie all’avallo di Giuseppe Ungaretti) ma poi, nel primo dopoguerra, ha fatto proprie istanze morali e una necessità di concretezza e di radicamento tellurico che prima gli erano sconosciute, approfondendole via via, tra anni Cinquanta e Sessanta, in direzione dell’antropologia culturale e di riferimenti s torico-geografici sempre più determinati. È forse il suo periodo migliore: il verso prende corpo e si allunga, l’elegia viene temperata dalla responsabilità e dal senso delle cose («ora forse i miei compagni ermetici mi vorranno male», scrive). Quindi, ancora, ha vissuto come tanti il declino delle speranze condivise, dei sogni di miglioramento individuale e comunitario.
Le sue poesie da ultimo si fanno brevissime (sono le cosiddette laminette), insieme minimali ed epigrammatiche, antipoetiche e aforistiche, tra lampi di saggezza e il buio tutt’attorno.