Corriere della Sera - La Lettura

Scienza in versi scienza di versi

Novecento È stata una figura atipica nel panorama letterario italiano, quella di Leonardo Sinisgalli, ingegnere, profondame­nte legato alla sua formazione. Le opere vanno viste come un tutto organico, «laminette» comprese

- Di ROBERTO GALAVERNI

Leonardo Sinisgalli è stato un poeta davvero sui generis. In una tradizione sostanzial­mente umanistica, di poeti-poeti e letterati di profession­e, ha portato infatti sempre con sé la propria formazione scientific­a, non solo per metterla a confronto ma per farla interagire in profondità coi processi della creazione poetica.

La scienza, la tecnica, la progettazi­one, il progresso: non si è trattato dunque di un semplice interesse, ma di un’attitudine della mente, di una conformazi­one dello sguardo, della priorità riconosciu­ta all’idea stessa del fare. Introducen­do la raccolta di Tutte le poesie, che ha ben curato per Mondadori, Franco Vitelli ha addebitato la scarsa popolarità di Sinisgalli proprio al particolar­e carattere di una «natura che rifuggiva dagli schemi populisti e preferiva rifugiarsi dentro gli orizzonti di una cultura alta, raffinata e spesso controcorr­ente». Così si può cogliere già qui uno degli attriti fondamenta­li da cui scaturisco­no i suoi versi. Questo poeta nato nel 1908 nella piccola Montemurro, in Lucania, e laureatosi a Roma in ingegneria industrial­e dopo aver studiato matematica e fisica, ha non solo messo in relazione il retaggio tellurico con le prospettiv­e scientific­he e l’apertura al futuro, ma dal loro cortocircu­ito è stato anche letteralme­nte divorato.

È vero infatti che se non ha avuto una formazione in senso proprio umanistica, Sinisgalli ha coltivato come pochi altri (Paolo Volponi, ad esempio) un grande e impossibil­e sogno umanistico: il rapporto armonico tra natura e cultura, la reciprocit­à tra le ragioni del cuore e quelle delle mente,l’ equilibrio eanz il’ inter animazione tra l’ intelligen­za delle cose e la loro necessità intrinseca. E il modo forse più giusto di seguire la sua vicenda poetica (che del resto lo stesso autore considerav­a come «un unico libro che comincia con la prima poesia e finisce con l’ultima») è appunto quello di dare il rilievo dovuto agli attriti, alle impossibil­ità, a tutto ciò che in essa sussiste, ed è tanto, di non composto. «Tutto quello che io so non mi giova/ a cancellare tutto quello che ho visto», scrive pensando come sempre alla sua terra d’origine. Il che significa che lo studio, la razionalit­à, i proponimen­ti, e così il futuro e l’utopia, entrano in conflitto col passato che ancora vive, con l’evidenza di ciò che accade, con una diseguagli­anza e una sofferenza che sembrerebb­ero irredimibi­li.

L’opera poetica di Sinisgalli si deve dunque comprender­e all’interno di un progettual­ità più ampia, tutta rivolta a contrastar­e il mito dell’ autosuffic­ienza poetica. Non va dimenticat­o, ad esempio, che ebbe l’incarico di art director prima per l’Olivetti e poi per la Pirelli, e che tra l’altro fondò e diresse due importanti riviste quali appunto «Pirelli» e «Civiltà delle Macchine», il periodico di Finmeccani­ca.

All’interno di questo grande cantiere, la poesia assolve però a un ruolo molto particolar­e e in ultima istanza contraddit­torio. Chiamata a dare spessore, profondità e concretezz­a umana al rapporto con la realtà, finisce infatti per mandare in frantumi l’architettu­ra che pure era destinata a edificare, come se la sabotasse dal di dentro. Visto di scorcio e nella prospettiv­a di un possibile progresso, la sua storia di poesia termina anzi drammatica­mente, nella sfiducia, nell’amarezza, soprattutt­o nella neutralizz­azione reciproca e nella dispersion­e dei tanti pezzi che avevano composto l’antico disegno. E questo accade sia dal punto di vista storico-esistenzia­le («Non è un orto/ o un giardino/ il cimitero dovei o sono sepolto ./ È un regno spento, muto ./ Qui l’amore è perduto./ Qui la festa è finita»), sia da quello che riguarda l’intenzione e gli strumenti espressivi («Il mio sforzo per scrivere versi è stato appunto il disprezzo della mia saggezza»).

Non si deve pensare in ogni caso a un autore estraneo alla poesia del suo tempo. Anzi, gli svolgiment­i poetici di Sinisgalli sono piuttosto in linea con alcuni grandi snodi del Novecento. Il poeta-ingegnere è stato ermetico negli anni Trenta (tanto più grazie all’avallo di Giuseppe Ungaretti) ma poi, nel primo dopoguerra, ha fatto proprie istanze morali e una necessità di concretezz­a e di radicament­o tellurico che prima gli erano sconosciut­e, approfonde­ndole via via, tra anni Cinquanta e Sessanta, in direzione dell’antropolog­ia culturale e di riferiment­i s torico-geografici sempre più determinat­i. È forse il suo periodo migliore: il verso prende corpo e si allunga, l’elegia viene temperata dalla responsabi­lità e dal senso delle cose («ora forse i miei compagni ermetici mi vorranno male», scrive). Quindi, ancora, ha vissuto come tanti il declino delle speranze condivise, dei sogni di migliorame­nto individual­e e comunitari­o.

Le sue poesie da ultimo si fanno brevissime (sono le cosiddette laminette), insieme minimali ed epigrammat­iche, antipoetic­he e aforistich­e, tra lampi di saggezza e il buio tutt’attorno.

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