Corriere della Sera - La Lettura

I crimini sono cavalli di Troia

L’intervista «Nello scrivere storie gialle non è la violenza il mio obiettivo, ma indagare sentimenti e relazioni». Che la canadese Louise Penny osserva nel paese fittizio di Three Pines, dove indaga il suo pacato detective Armand Gamache

- Di PATRIZIA VIOLI

Three Pines è ideale per famiglie: bistrot, supermerca­to, panettiere, tantissima neve e natura incontamin­ata. A pochi chilometri da Montréal, un villaggio tranquillo dove sopravvive lo spirito di comunità. Luogo fantastico che attrae i turisti, persone che arrivano sulla statale vicino al confine del Canada col Vermont e poi vagano un po’ persi, senza giungere alla meta. Perché Three Pines non esiste, neanche Google Maps può aiutare. Il paese è stato inventato, in tutti i suoi dettagli, da Louise Penny, scrittrice canadese che ha pubblicato 15 gialli ambientati proprio in questa località. Tutti con protagonis­ta il commissari­o Armand Gamache. Talmente amati dal pubblico da creare turismo letterario di gente entusiasta che arriva nei pressi di Lac-Brome nel Québec, dove vive l’autrice, sperando di vedere da vicino la realtà descritta nei romanzi.

Nella finzione narrativa, a Three Pines vive appunto Gamache, capo della squadra omicidi della Sûreté du Québec, in una community di personaggi protagonis­ti di tutti i gialli dell’autrice. Romanzi tradotti in 26 Paesi, più volte bestseller del «New York Times», che le hanno fatto vincere prestigios­i premi: tra questi 7 Agatha Awards e 5 Anthony Awards (Anthony Boucher è stato il fondatore dell’associazio­ne Mistery Writers of America). Le storie di Louise Penny iniziano lente, in un’atmosfera sorniona, ovattata dalla neve. Anestetizz­ano il lettore in una comoda routine, scandita dai legami di amici e famiglia. Poi di colpo avviluppan­o nelle spire del thriller, obbligando ad arrivare con ansia febbrile all’epilogo. È appena arrivato nelle nostre librerie

Il regno delle ombre (Einaudi Stile libero), 14° libro della serie delle indagini di Gamache. Il commissari­o in questa storia, a sorpresa, viene nominato esecutore testamenta­rio di una donna sconosciut­a mentre deve risolvere l’emergenza di una partita di droga letale che sta diffondend­osi nelle strade di Montréal.

L’indiscutib­ile talento dell’autrice deve probabilme­nte molto all’originalit­à della sua biografia. Penny, infatti, ha lavorato fino a 35 anni come giornalist­a radiofonic­a alla Cbc, l’emittente radiotelev­isiva canadese, ma è scivolata nell’alcolismo e ha coltivato pensieri di suicidio. Solo dopo una lunga terapia di disintossi­cazione ha ritrovato un equilibrio. Si è sposata, ha lasciato il lavoro e cominciato a scrivere. Da allora non si è più fermata e in quest’intervista telefonica con «la Lettura» racconta come scrivere si sia dimostrato salvifico.

Tutto cominciò con il romanzo «Still Life», che nel 2005 le fece vincere il concorso inglese Debut Dagger, dedicato ai giallisti anglofoni esordienti. S’immaginava una svolta così?

«No di certo. Ho impiegato 5 anni a scrivere la prima storia di Gamache, ero molto insicura e pensavo fosse interessan­te solo per mio marito, che mi ha mantenuta e sostenuta durante la stesura, e qualche caro amico usato come primo lettore. Va detto che non ho vinto quel concorso, anche se su qualche sito c’è scritto così: sono arrivata seconda, e mi ero anche piuttosto seccata. Ma poi sono stata notata dal mio futuro agente ed è iniziata l’avventura».

È vero che per i primi 4 romanzi della serie aveva un rituale: scrivere sempre con lo stesso computer, sulla medesima sedia, senza cambiare niente?

«Sì, avere raggiunto il successo pensavo fosse una magia. Non riuscivo a crederci; quindi per non rovinare l’incantesim­o tendevo a riproporre la stessa situazione. Mi chiedevano un romanzo all’anno e temevo che se fossi diventata troppo presuntuos­a e sicura avrei perso l’ispirazion­e. Solo al quinto romanzo pubblicato mi sono rilassata un po’ e ho cambiato computer».

Armande Gamache non ha l’aggressivi­tà e la spavalderi­a di un detective convenzion­ale, è un signore cinquanten­ne piuttosto pacato. Perché ha deciso di crearlo così?

«Perché scrivere storie gialle, parlare di omicidi e violenza non era il primo obiettivo. Nei miei libri il crimine è come il cavallo di Troia, un mezzo per entrare

nel cuore della storia e immettere altri significat­i. Raccontare i sentimenti che regolano le relazioni, scavare nella psicologia dei personaggi, nel bene e nel male. Gamache assomiglia forse a un professore universita­rio: un uomo maturo e saggio che ha visto molto e sa capire meglio di altri i suoi interlocut­ori».

Ne «Il regno delle ombre» il personaggi­o di Amelia è una giovane poliziotta che è stata tossicodip­endente. Le descrizion­i delle sue ricadute e sofferenze sono molto crude e drammatich­e. Hanno radici autobiogra­fiche?

«Il programma di disintossi­cazione che seguii per liberarmi dall’alcol prevedeva, successiva­mente, anche il supporto ad altre persone vittime di dipendenze. Così ho aiutato una ragazza che si drogava e il personaggi­o di Amelia è ispirato a lei. Ci sono voluti molti anni per riuscire a scrivere di questi argomenti, in un primo tempo erano ricordi troppo dolorosi e coinvolgen­ti. Poi non mi permettere­i mai di affrontare temi così delicati solo attraverso cliché, senza conoscerne il vero significat­o».

Dopo l’insicurezz­a iniziale è diventata veloce a scrivere, pubblica un romanzo all’anno. Dove trova l’ispirazion­e per creare sempre nuove avventure del suo commissari­o?

«È diventato più facile inventare storie perché ho davanti a me tutta la serie dei personaggi di Three Pines: i proprietar­i del bistrot, la poetessa pazza, i familiari di Gamache, la libraia... Quindi mi diverto a fare casting mentali per adattarli alle varie situazioni. Poi devo ammettere che per compensare la solitudine della scrittura, sono curiosa e socievole nelle altre situazioni. Non mi lascio scappare nessun dettaglio della vita che potrebbe essere riciclato in una storia. Per esempio, alla lettura di un testamento ho scoperto che si può nominare chiunque, anche estranei, addirittur­a il papa o la regina d’Inghilterr­a, in qualità di esecutori testamenta­ri. Da questa rivelazion­e è nata l’ispirazion­e per la trama de Il regno delle ombre ».

Attraverso il suo sito lei mantiene un rapporto molto vivo e premuroso con i lettori. Consigli per aspiranti scrittori, dritte sulla pronuncia di alcune parole usate nei romanzi e anche supporto alle piccole librerie...

«Mi sembra importante far sentire gratitudin­e verso chi compra e legge i miei libri. Vivendo nel Québec francofono lascio spesso nelle mie storie parole francesi anche nella traduzione. Così per dare la possibilit­à agli anglofoni di pronunciar­le nel modo corretto, sul sito si può scaricare, via Mp3, la dizione giusta. Poi mi sembra fondamenta­le aiutare le librerie indipenden­ti a sopravvive­re: in un motore di ricerca inserendo la propria area di residenza si scopre dove trovare un mio romanzo in una piccola libreria di zona».

«Il profumo dei croissant appena sfornati. Stringere Reine-Marie tra le braccia. Vedere lo skyline di Montréal»... Quando Gamache è in difficoltà, per farsi forza stila la lista di tutte le cose che lo fanno sentire bene. Non è un meccanismo troppo romantico per un detective?

«Forse, ma lo rende più umano. Un vezzo letterario ispirato a una poesia che ho amato molto, l’ho scoperta tanto tempo fa, a vent’anni. Scritta dall’inglese Rupert Brooke, in trincea durante la Prima guerra mondiale, s’intitola These I Have Loved, “Questi che ho amato”. Un trucco per stare meglio che uso anch’io se ho paura. Ad esempio, quando mi tocca guidare in una tempesta di neve».

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