Corriere della Sera - La Lettura
Carrisi esagera sull’abisso della follia
In una Firenze dove piove più che in Blade Runner, esercita Pietro Gerber, psicologo ipnotista che aiuta i suoi pazienti, tutti bambini, a ricordare i ricordi scomodi. Un mestiere che già faceva suo padre. Una collega australiana contatta il terapeuta per aiutare una donna, tale Hanna Hall, in arrivo in città. Costei si veste maluccio, si lava poco e fuma come una turca sigarette Winnie (la sigaretta di bandiera australiana). Hanna Hall ha trascorsi fiorentini e toscani dove ha vissuto da bambina. I suoi genitori erano sempre in fuga, trascinandosi dietro una piccola bara contenente il cadavere di un bambino, e morirono in circostanze drammatiche e oscure... Ben presto l’ipnotista si insospettisce. Chi è veramente Hanna Hall? È davvero l’assassina del bambino della bara come sostiene? Cosa vuole da lui? Perché sa tante cose sulla sua vita, cose che riguardano il suo complicato rapporto con il padre e che lui non ha svelato mai a nessuno? D’altra parte, Gerber non può negare di essere in qualche maniera attratto dalla paziente australiana. In La casa delle voci Donato Carrisi fa risorgere con mossa teatrale San Salvi, la città-manicomio fiorentina che fu l’ospedale psichiatrico più grande d’Europa, però è come se si fermasse sulla soglia di quello spettrale villaggio. Peccato per l’occasione persa. E, in generale, tutto il romanzo resta in superficie pur prospettando abissali risvolti psichici quasi a ogni pagina. Forse sono i personaggi che sono soltanto funzioni, ombre e non persone in carne e ossa.
Come diceva il maestro del thriller psicopatologico Jim Thompson (ora opportunamente riproposto da HarperCollins), l’unica regola del genere è che le cose non sono quello che sembrano. Ma non bisogna esagerare: certe volte è meglio che le cose siano quello che sembrano, altrimenti la suspense diventa routine.