Corriere della Sera - La Lettura
C’era la nostra ribellione Adesso ci siamo noi
Dialoghi Marco Ubertini, un tempo Hube, e Silvano Albanese, in arte Coez, erano compagni in un collettivo di rapper romani prima di seguire traiettorie diverse. Ora il primo pubblica un libro, il secondo è un musicista di successo: «la Lettura» li ha fatti incontrare
«Lo spot più alto e più coatto a Roma era di Marco»: la dedica allo Spiderman della bomboletta, primatista di graffiti acrobatici, è racchiusa nel brano Piangi, di Coez e Simon P (uno dei fondatori di Quarto Blocco, collettivo di rapper, grafici e videomaker). Dieci anni dopo Marco Ubertini (Hube il suo pseudonimo da writer), protagonista della prodezza — un disegno sul muro al sesto piano di un palazzo tracciato arrampicandosi su un gigantesco cartellone pubblicitario — la descrive in un capitolo del suo libro, 33 (Sperling & Kupfer), intitolato La scalata, che su «la Lettura» #429 del 16 febbraio ha recensito Alessandro Beretta. La prefazione al romanzo scritta da Coez, 36 anni, alias di Silvano Albanese, cantautore formatosi nella scena rap romana che inanella album e riempie i palazzetti (a Sanremo ha duettato con Gianna Nannini), amico e compagno di strada dell’autore dai tempi del gruppo Brokenspeakers, ne scolpisce l’essenza: «Ho sempre pensato che andare all’inferno per tornare con una storia da raccontare potesse almeno dare un senso a tutto il dolore. Questo libro è la rivincita di chi ha toccato il fondo e può ancora raccontarlo». Come vi siete conosciuti?
MARCO UBERTINI — Ci incontrammo a Campo de’ Fiori. Nicco (Niccolò Celaia, altro componente di Brokenspeakers, che oggi è un affermato videomaker, ndr) cercava un giubbotto Northface, ai tempi costosissimo. Io e un mio amico writer li rubavamo per rivenderli. Non eravamo ancora un gruppo, ma Ford e Sine avevano iniziato a produrre musica, mi davano dei beat (basi ritmiche, ndr) e io ci cantavo sopra.
COEZ — A quel tempo Franz smanettava già con i programmi informatici, avevamo preso una scheda audio col microfono e inciso una demo. Ci vedevamo spesso a Campo de’ Fiori, poi Marco è partito per un lungo periodo, mentre io, Nicco e Lucci (un altro dei Brokenspeakers, ndr) abbiamo iniziato a prendere molto sul serio il progetto musicale. Quando lui è tornato facevamo le prime serate, eravamo passati a un tipo di vita più sano grazie alla musica, dedicavamo tutte le energie a scrivere e comporre. La nostra generazione è stata decimata dai rave, ci siamo ritrovati con una passione molto più costruttiva di tutto quanto avessimo fatto fino a quel momento.
MARCO UBERTINI — Sì, la nostra generazione è stata decimata, come racconto nel finale del libro. Ho cercato di evitare la retorica del redento ma sono stato dalla parte di quelli che non ci sono più. Dopo aver cambiato vita, mi sono reso conto che dovevo confrontarmi con tutto quello che era andato perso oltre me.
La sua partenza è legata alla scelta di entrare in una comunità per tossicodipendenti. Come ha mantenuto i rapporti con il mondo esterno?
MARCO UBERTINI — Fu Sine (Alfonso Climenti, dj e produttore, ndr) ad accompagnarmi in macchina assieme alla mia amica Valeria. Ricordo i discorsi motivazionali, il cazziatone: «Basta, hai toccato il fondo, smettila», mentre io ero sempre più mortificato. Quando arrivammo l’operatrice aprì lo sportello e, credendo fosse Alfonso, lo accolse con slancio: «Allora sei tu, il ragazzo, vieni con noi...». Una scena comica.
COEZ — Marco mi chiamava spesso dalla comunità, passavamo ore al telefono. Ho capito che, anche negli sbagli, in lui c’era una luce, la voglia di non abbandonarsi completamente. Credo che questo ci abbia uniti anche se abbiamo due storie molto diverse. Quando cresci insieme hai la stessa cultura e la stessa attitudine, condividiamo un’ironia nera che, prima di conoscerlo, non avevo.
MARCO UBERTINI — Abbiamo imparato a ridere dei drammi, è il nostro modo di sostenerci. Com’è stato tornare alla normalità dopo un anno e mezzo di isolamento?
COEZ — Quando lo rividi la prima volta mi colpì: era partito magrissimo e rasato, tornò muscoloso e capellone.
MARCO UBERTINI — Lì era tosta, al mio ritorno ero un po’ istituzionalizzato, non era facile trovare persone con cui stare. La prima sera che uscii mi ritrovai in una rissa in un locale, capii subito che non era quello che cercavo. La seconda volta loro (Brokenspeakers, ndr) suonavano al Traffic, li avevo lasciati con le demo in studio e li ritrovai sul palco. Sono stati un canale pulito, la mia isola sana.
Il libro affronta un tema come la droga del quale, nonostante la diffusione, si parla ancora troppo poco.
COEZ — Non mi sembra che Marco la esalti, anzi. Parlare di una cosa nel modo giusto è meglio che non parlarne. Il tabù non risolve: forse attrae. La droga esiste nei film, nelle canzoni, nei libri... non c’è da nasconderlo né da sbandierarlo.
MARCO UBERTINI — Nei nostri anni le droghe erano molto più categoriche, adesso c’è una terra di mezzo con mille sostanze dagli sviluppi imprevedibili. Nel libro parlo della ketamina, noi la rubavamo dai veterinari, scoprimmo con il passaparola che poteva provocare certi effetti. Spesso la diffusione delle droghe è determinata dalle mode, oggi si beve la codeina, una sorta di morfina più leggera. Quando a 16 anni andavo ai rave alla Fintech (complesso industriale abbandonato sulla Pontina, ndr) l’eroina non era accettata, chi si bucava veniva linciato mentre ora si fuma, chi ne fa uso non viene più visto come un tossico.
COEZ — Andavo anch’io ai rave alla Fintech ma quando tornavo a casa non ascoltavo la techno, mi piaceva il rap. Eravamo attratti dall’idea di essere liberi, senza regole, ma poi, come nel film The
Beach con Leonardo DiCaprio, dove lasciano morire uno nella foresta, inizi a chiederti quanto costa la libertà... Alla fine, si è sempre dipendenti da qualcosa.
MARCO UBERTINI — La mia più che ricerca di libertà era rabbia, ribellione. Lo slogan del G8 di Genova, al quale ho partecipato, era We are winning, stiamo vincendo. Sono stati gli ultimi anni in cui c’era ancora la sensazione di poter andare contro il mondo che ci veniva imposto e i rave ne erano l’esempio: ci riprendevamo i luoghi abbandonati, per poi triturarci di droghe. Volevamo ribellarci, ma poi...
COEZ — Un po’ come quando occupavamo le scuole e facevamo danni perché qualcosa non funzionava...
MARCO UBERTINI — Fino ai primi anni Duemila c’è stata un’esplosione di movimenti, culminati nel G8, che si opponevano alla globalizzazione, poi si sono fermati. Nel libro li racconto, sono stati l’ultimo colpo di coda di subculture permeate da spirito collettivo, idee comuni, condivisione. Anche il writing era un strumento rabbioso, che ci faceva sentire parte di qualcosa in contrasto con il sistema. Le proteste di Greta Thunberg sono molto più leggere, rabbia addomesticata... COEZ — I graffiti sono stati il primo embrione (Coez era una tag, la scritta con cui Silvano Albanese si firmava, ndr). Se un ragazzino delle medie sfoglia una rivista in cui nello stesso movimento trova graffiti, breakdance, rapper, dj, pensa: “Che diavolo ho fatto fino a ieri?”. Rubare un pennarello dal ferramenta e iniziare a
taggare è la cosa più facile, poi con la musica senti di poter ampliare il messaggio. Marco ha fatto la stessa cosa con il libro.
Un’emozione che traspare dal libro è la paura. Come gestite le fragilità in un mondo che proietta modelli sempre più performanti, spesso inarrivabili? MARCO UBERTINI — Quando entravo nel campo rom di notte o dormivo nell’ex manicomio abbandonato con un coltello sotto il cuscino la paura c’era. Per esorcizzarla ho dovuto rimuoverla. Con il libro ho considerato il rischio di mettere la faccia su una storia autobiografica, anche se da 15 anni la mia vita è completamente diversa. Ho pensato alla reazione che avrebbe potuto avere la maestra di mio figlio ma poi ho deciso di abbracciarla, quella paura, e si è risolta da sola.
COEZ — Ogni volta che faccio un nuovo disco cerco sempre un po’ di attrito con il pubblico, non do mai quello che ho dato in precedenza. Quella paura la cerco, me la sudo, però mi ha sempre ripagato. Poi, certo, non devi inseguire la reazione per forza, tanti artisti diventano schiavi di quel meccanismo... Fa bene creare frizioni, ma devi sempre essere autentico.