Corriere della Sera - La Lettura
I narcos scavano mentre The Donald spiana colline sacre
Le guardie alla guerra dei tunnel, il Messico ferma i migranti, i nativi protestano
Come un assedio medievale dove i contendenti scavano senza un attimo di respiro. I trafficanti messicani picchiano con picconi e pale. Il loro obiettivo è realizzare gallerie in grado di far passare tonnellate di droga sotto il confine tra Stati Uniti e Messico. Dall’altro lato genieri americani e operai sistemano strutture per innalzare o creare ex novo una muraglia in grado di resistere a qualsiasi assalto.
Donald Trump la vuole ed è disponibile a pagare qualunque prezzo: la penultima stima indica 21,6 miliardi di dollari. La Casa Bianca stornando fondi dal budget federale — compreso quello del Pentagono — ne avrebbe a disposizione circa 18. Abbastanza, giurano, per riuscire a costruire 1.424 chilometri di barriera entro la primavera del 2022 (e almeno 720 per la fine dell’anno). Un segmento che deve aggiungersi ai 1.046 già esistenti.
Sono cifre che a volte ballano. Resteranno scoperte alcune porzioni di territorio marcate da canyon, fiumi e altre asperità. Rischioso passare, arduo eseguire opere. Però mai dire mai, specie nel West, dove non manca la determinazione. E poi le «stranezze»: i tecnici saranno costretti a lasciare delle aperture — vigilate, assicurano — per far defluire torrenti che intersecano la linea di divisione. Saranno usate per infiltrarsi come avviene a Nogales, città simbolo?
Si tratta dell’ultima cittadina statunitense sulla frontiera dell’Arizona, rappresenta un buon osservatorio. Per la semplice ragione che il muro la separa dalla Nogales messicana. Un taglio netto.
«La Lettura» è stata qui spesso, nelle stradine che finiscono contro la barriera e lungo i sentieri che si spingono a est e a ovest. È scesa nella grande condotta per l’acqua, utile per evitare allagamenti nella stagione delle piogge ma prezioso alleato delle talpe narcos quando è «secca». La sfruttano per accorciare le distanze aprendo derivazioni per i loro passaggi clandestini.
In quest’area, nel corso degli anni, hanno scoperto oltre 125 tunnel. Molti anche in California, tra Tijuana e Otay Mesa. Altri provano a infilarsi sui convogli merci che collegano i due Paesi. I treni si fermano davanti a un grande cancello, una sorta di ponte levatoio della fortezza America. I doganieri aprono e chiudono la «porta» dopo i controlli. Via libera, la «Bestia» — con quest’appellativo è conosciuto il convoglio — riprende lentamente il suo viaggio verso il Nord.
A due isolati dalla linea ferrata, tra parcheggi e negozi, inizia l’autostrada 19. Porta a settentrione, verso Tucson-Phoenix e le diramazioni californiane. Strategica per i commerci, fondamentale per i corrieri degli stupefacenti e per questo presidiata da un grande posto di blocco, poco lontano da un ristorante italiano. Tanti vengono scoperti, altrettanti la fanno franca in una partita senza fine.
La sfida sulla frontiera non ferma la vita. La rallenta. Valore del dollaro, prezzi e tensioni incidono sui frontalieri. Ecco le donne con le borse della spesa sulla Morley Avenue, i bimbi al seguito distratti dai giocattoli esposti. Alcuni uomini, tra l’annoiato e l’attesa, accompagnano con lo sguardo il giro delle pattuglie, guardie addestrate a pensare che c’è sempre qualcuno che le vuole fregare.
Negli ultimi quattro mesi sono state arrestate 165 mila persone, l’anno prima — nello stesso periodo — ne avevano beccate 265 mila. Un calo netto. Cambia l’origine dei fermati: se nel 2019 il 61% erano centroamericani, oggi la maggioranza sono messicani, risospinti da motivi economici e possibilità di lavoro. La Casa Bianca — felice della propria strategia di contenimento — ha aumentato le contromisure, ha schierato molti più agenti, ha impiegato persino i ranger dei parchi, ha accentuato la militarizzazione con l’invio di soldati e il dispiegamento di alta tecnologia. In alcuni punti il muro è passato a 9-10 metri d’altezza, reso ancora più inattaccabile dall’aggiunta di filo spinato, come è avvenuto a Nogales.
Le autorità statunitensi hanno espulso 55 mila clandestini, a loro volta i messicani hanno bloccato alcune carovane di migranti provenienti da Guatemala o Honduras. Un intervento per ammansire The Donald, una mossa favorita dal sentimento anti-immigrati cresciuto persino in un Paese che vede i suoi figli partire. Sono numeri ridotti, se confrontati con i 10-12 milioni di illegali che vivono negli Stati Uniti, arrivati in gran parte attraverso porti e aeroporti e non bucando il confine sud. All’ostacolo fisico si è sommato quello «mentale» e amministrativo. Sanno che è più dura, la polizia ha smembrato le famiglie intercettate. I richiedenti asilo devo attendere in Messico e — stando alle ultime versioni — ne restano 2.500 contro i 55 mila di qualche mese fa.
I trafficanti di uomini chiedono dai 7 mila ai 12 mila dollari, dipende dalle situazioni, e studiano i trucchi. Nessuno però si è arreso, i network criminali aspettano momenti favorevoli oppure dirottano le loro prede in aree remote, come l’Organ Pipe, nella riserva indiana.
Ci si arriva attraversando piccole località, come Sells e Why, gruppi di case in uno scenario lunare, con qualche distributore, miniere in disuso e un triste casinò gestito dalla tribù. Nel deserto si scorgono i segni lasciati da quanti usano questo corridoio, esseri umani che accettano i rischi e «spalloni» della droga.
Ora la zona è al centro dell’attenzione pubblica. Per realizzare la palizzata hanno demolito, con la dinamite, porzioni di colline considerate sacre dai nativi americani: la nazione Tohono ha sepolto sotto gli arbusti i resti dei nemici, i fieri Apache. Il governo avrebbe dovuto consultare gli «indiani», nessuno lo ha fatto. Washington ha deciso di procedere forzando una legge che glielo permette: ha un lavoro da finire, poco importa che coinvolga una ventina di siti archeologici.
La tribù ha protestato, hanno protestato anche gli ecologisti, probabile che si apra una vertenza legale, come è avvenuto in altre regioni. Battaglie di retroguardia mentre il presidente cavalca verso il voto di novembre sbandierando i successi dell’economia e la promessa che fermerà «l’invasione».