Corriere della Sera - La Lettura
La trappola dell’incipit come un parto podalico
Gli ostacoli di una traduzione si possono dividere in due grandi tipologie: un originale oscuro/ambiguo e la difficoltà di resa in italiano. Poiché a parlare delle proprie difficoltà di comprensione della lingua di partenza si rischia di fare la figura degli asini, mentre a parlare delle soluzioni scelte nella lingua di arrivo si passa per virtuosi, va da sé che parlerò di un caso di questo secondo tipo. Si tratta dell’incipit di In gratitudine di Jenny Diski (NN, 2017), memoir di una protagonista della scena letteraria inglese scomparsa nel 2016, pochi giorni dopo la pubblicazione di questo libro. Perché l’incipit? Perché è il momento più difficile: quello su cui l’autore di solito lavora di più, quello su cui il lettore spesso basa la decisione se acquistare o meno il libro e quello in cui il traduttore deve dare il meglio di sé, in una fase in cui non ha ancora la sintonia con l’autore, che arriverà con il trascorrere dei giorni e delle pagine (il processo che in gergo si chiama «trovare la voce giusta»). La caratteristica dell’incipit è una densità concettuale che, a una prima lettura, sembrava pormi di fronte a una scelta: eliminare qualche sfumatura di significato, qualche concetto non strettamente essenziale, oppure tentare di conservare tutto a costo di ritrovarsi con una traduzione lunga il 50% in più rispetto all’originale. Per motivi diversi, nessuna di queste due soluzioni mi pare accettabile (da un lato il mio lavoro è tradurre ogni cosa, dall’altro, per voler essere del tutto fedele all’autore, non posso rischiare di tradirlo su aspetti sostanziali quali lunghezza e ritmo). Come ne sono uscito? Ho fatto del mio meglio, poi ho lasciato lì a decantare qualche settimana intanto che procedevo con il resto della traduzione, quindi ho provato a rivedere e migliorare, e alla fine, quando lo sconforto stava per avere il sopravvento, ho chiamato la editor (Serena Daniele: più che una redattrice, un’ostetrica di testi podalici), e lei, imperturbabile, mi ha risposto: «Ci penso sopra» e, il giorno dopo, l’ostico But embarrassment curled at the edges with a weariness […] si era trasformato in un perfetto, musicale «Ma un disagio ripiegato su sé stesso nello sconforto […]».