Corriere della Sera - La Lettura

La trappola dell’incipit come un parto podalico

- Di FABIO CREMONESI

Gli ostacoli di una traduzione si possono dividere in due grandi tipologie: un originale oscuro/ambiguo e la difficoltà di resa in italiano. Poiché a parlare delle proprie difficoltà di comprensio­ne della lingua di partenza si rischia di fare la figura degli asini, mentre a parlare delle soluzioni scelte nella lingua di arrivo si passa per virtuosi, va da sé che parlerò di un caso di questo secondo tipo. Si tratta dell’incipit di In gratitudin­e di Jenny Diski (NN, 2017), memoir di una protagonis­ta della scena letteraria inglese scomparsa nel 2016, pochi giorni dopo la pubblicazi­one di questo libro. Perché l’incipit? Perché è il momento più difficile: quello su cui l’autore di solito lavora di più, quello su cui il lettore spesso basa la decisione se acquistare o meno il libro e quello in cui il traduttore deve dare il meglio di sé, in una fase in cui non ha ancora la sintonia con l’autore, che arriverà con il trascorrer­e dei giorni e delle pagine (il processo che in gergo si chiama «trovare la voce giusta»). La caratteris­tica dell’incipit è una densità concettual­e che, a una prima lettura, sembrava pormi di fronte a una scelta: eliminare qualche sfumatura di significat­o, qualche concetto non strettamen­te essenziale, oppure tentare di conservare tutto a costo di ritrovarsi con una traduzione lunga il 50% in più rispetto all’originale. Per motivi diversi, nessuna di queste due soluzioni mi pare accettabil­e (da un lato il mio lavoro è tradurre ogni cosa, dall’altro, per voler essere del tutto fedele all’autore, non posso rischiare di tradirlo su aspetti sostanzial­i quali lunghezza e ritmo). Come ne sono uscito? Ho fatto del mio meglio, poi ho lasciato lì a decantare qualche settimana intanto che procedevo con il resto della traduzione, quindi ho provato a rivedere e migliorare, e alla fine, quando lo sconforto stava per avere il sopravvent­o, ho chiamato la editor (Serena Daniele: più che una redattrice, un’ostetrica di testi podalici), e lei, imperturba­bile, mi ha risposto: «Ci penso sopra» e, il giorno dopo, l’ostico But embarrassm­ent curled at the edges with a weariness […] si era trasformat­o in un perfetto, musicale «Ma un disagio ripiegato su sé stesso nello sconforto […]».

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