Corriere della Sera - La Lettura
Quand’ero piccolo giocavo col profeta
L’opera stilisticamente spuria, e dall’ispirazione radicalmente religiosa, di Demetrio Paolin riflette sulla disperazione di Geremia e su un trauma infantile
teme l’altezza, e saprò la mia verità». E dove si vive anche la scissione tra il Demetrio narratore e il Demetrio personaggio, così come tra il Patrick reale e l’immaginato, che giunge sino alla loro sovrapposizione: «Questa e la tua storia, Patrick, ma è anche la mia storia in te».
È anche da qui che viene questo naturale «confondere piani». Perché trent’anni prima Patrick si è suicidato «bevendo veleno per topi e due flaconi di diserbanti che ha trovato in un capanno di cacciatori»: ciò per il giovane Demetrio ha comportato che «dopo la morte di Patrick niente è stato più come prima», accentuando la conoscenza, già a lui dovuta, del «profondo limite di me stesso», approdata trent’anni dopo a un «provare a fare della propria condizione esistenziale un racconto». Un piano narrativo di incontri e sovrapposizioni di personaggi, che Demetrio gestisce ora ricorrendo ai versetti di Geremia (anche discutendone le traduzioni), ora riscrivendoli e riadattandoli all’oggi, ora stendendone di propri in quello stesso tono. Passaggi continui sottratti al possibile pastiche proprio grazie al filo interiore delle ossessioni tematiche, punteggiate da chiose e note, nonché quattro appendici strettamente legate al testo, approdanti a una giornata conclusiva scandita dai tempi dell’Officio, da Mattutino a Compieta.
Geremia «figura di Cristo» viene riletto nella sua abissale disperazione, e per questo preferito alla «disperazione per una perdita» di Giobbe. Ma proprio per questo Anatomia di un profeta è un libro «di fede»: nel quale «la celata disperazione dell’essere religiosi» si dà come continua interrogazione attraverso una narratività che nasce dal non costituirsi come saggio, memoria, autofiction, quanto dal loro continuo incrociarsi con considerazioni teologiche, momenti di poesia o squarci di prosa affettiva sulle colline o dentro i paesini del Monferrato, introduzione d’altri io narranti (i genitori di Patrick). Un’opzione narrativa per la quale lo stesso Paolin, desiderando dare un eventuale riferimento, nominava Il regno di Emmanuel Carrère quanto a tipologia, anche se vi si legge una linea che, per tenerci al tema, rivediamo più tra L’opera al tradimento di Mario Brelich e Il quinto Evangelio di Mario Pomilio.
Una scelta stilistica, lo spurio — con quanto il termine richiama di «sporcarsi» — che si fa fisicità per poter dare corpo proprio alle tensioni interne, fatte di continuo scavo. Lasciando spazi d’interrogazione e riflessione anche al lettore, se è vero che a un certo punto ci siamo trovati ad annotare una coincidenza tra «Male» e «Vuoto». Un Vuoto che offre però anche quale squarcio di salvezza. Partendo dalla scrittura.