Corriere della Sera - La Lettura
Sto sulla lista nera ma se sono disperato non mi piace dirlo
Mahmoud Doulatabadi, in cella sotto lo scià, ex barbiere, è considerato il «Tolstoj persiano»
«Qualche giorno fa, all’ufficio dell’Onu a Teheran, ho parlato del fenomeno della paura. Non mi riferivo direttamente all’attuale epidemia di coronavirus né in generale ai recenti eventi. Come quel filosofo che disse “Cogito ergo sum”, penso dunque sono, io ho detto: “Ho paura dunque sono!”. La paura vince quando c’è insicurezza rispetto a un fenomeno anonimo e pervasivo. E questa paura si raddoppia quando le persone rimangono inconsapevoli sulla diffusione di una malattia, per motivi politici. La paura in sé è molto più dannosa della rivelazione di un’epidemia: annunciarla con ritardo significa sottrarsi al tentativo di difendersi e combatterla. La paura è normale soprattutto perché sappiamo tutti di non avere strutture sanitarie adeguate per affrontare questa malattia e le sanzioni contro il Paese hanno creato una paura ancora più forte nella società, che dunque si sente in grave pericolo».
Incontriamo Mahmoud Doulatabadi nel suo appartamento di Teheran, con vista sui monti Alborz innevati. È il più famoso scrittore iraniano, 79 anni, figlio di calzolai del nordest dell’Iran, il padre gli trasmise l’amore per la poesia. «L’ho sognato ieri notte». Barbiere, attore, operaio: Doulatabadi ha fatto di tutto nella vita, ma quando poteva scriveva. Lo chiamano il Tolstoj iraniano, nel suo studio campeggia un ritratto del maestro russo. Tra i suoi romanzi, Il colonnello è tradotto anche in Italia. «Nel 1980 — racconta — un produttore che voleva fare un documentario su di me si è sentito dire dal governo che sono sulla lista nera. Il mio nome c’è sempre stato e ci sarà sempre: prima della rivoluzione (fu arrestato sotto lo scià, ndr), adesso e nel regime futuro. La lista è sempre la stessa». I suoi romanzi vengono pubblicati ma per la tv non può scrivere: «Siamo in Iran, niente è incredibile».
Dopo l’uccisione di Qassem Soleimani in un raid americano il 3 gennaio, lei scrisse: «L’Iran perde uno dei suoi più onorevoli figli». Il «New York Times» notò che uno come lei, che difende la libertà di espressione, simpatizzava con il generale dei Pasdaran.
«L’uccisione di Soleimani è stata scioccante: un soldato può morire al fronte, ma questo modo di assassinare una persona non è etico, anche se la stessa Repubblica islamica nella sua storia ha fatto cose simili. Il regime, per quarant’anni, ha sempre sovrapposto la bandiera dell’islam a tutti i personaggi importanti, ma la folla che ha partecipato ai funerali di Soleimani lo ha trasformato in personaggio innanzitutto nazionale: iraniano e musulmano. Soleimani aveva una famiglia molto simile alla mia e a quelle che ho descritto nei miei libri. Mia madre, come lui, era originaria di un villaggio di Kerman. Io sono nato nella provincia di Khorasan. Tutti e due siamo venuti fuori dalle viscere del Paese: era un uomo del popolo».
Ci sono anche persone che non sono andate a quei funerali.
«È vero, le conosco anch’io. Sono persone a cui il regime ha fatto del male, non riescono a vedere l’aspetto generale di un evento come questo. Quei funerali sono stati un ritorno al pensiero nazionale. Di recente il dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti ha pubblicato un elenco delle autorità iraniane che si sono arricchite: la gente ha potuto notare la differenza con Soleimani, che in quell’elenco non c’era; quando non sei come gli altri, sei contro di loro. Inoltre, i terroristi sono arrivati a 23 chilometri dal confine, l’Isis aveva scelto un governo per la regione di Khorasan, ma fino a quando Soleimani era vivo li ha fermati. Quand’è stato ucciso si dice che si trovasse in Iraq per tentare il dialogo con l’Arabia Saudita. Ora io spero che la sua morte possa portare alla pace. Ma se uno come me simpatizza con Soleimani, non si deve pensare che sono contro gli Stati Uniti. Sentirsi vicini al proprio popolo non dovrebbe portarci a essere contro il resto del mondo».
Quando le autorità hanno dato notizia che i veri responsabili dell’abbattimento dell’aereo ucraino erano i Pasdaran, lei ha scritto di essersi sentito «paralizzato dal rimpianto per questo popolo». In che modo l’uccisione di Soleimani e la tragedia di quei 176 passeggeri hanno influenzato le elezioni parlamentari del 21 febbraio, e la bassa affluenza (42%)?
«Di solito non faccio attenzione al Parlamento. Dopo più di trent’anni di isolamento e lontananza dalla società non conosco e non voglio conoscere più i candidati. In questi quarant’anni ho votato solo per due presidenti moderati: due volte per Rouhani e, prima di lui, per Khatami. L’immagine di Soleimani è stata centrale nelle campagne elettorali di questo voto. E se non fosse stato per lui sicuramente ancora meno gente sarebbe andata alle urne. Il suo assassinio ha toccato la sensibilità della società: molti elettori, alla tv, hanno sottolineato che partecipavano solo per la patria. Non so, invece, quanti abbiano reagito al disastro dell’aereo ucraino, che mi ha fatto stare così male».
I riformisti sono stati spazzati via dal Parlamento e Rouhani nel 2021 conclude il secondo (e ultimo) mandato: è la fine per i moderati in Iran?
«Ho votato per Rouhani perché ha mostrato di avere la chiave per risolvere l’enigma del rapporto tra l’Iran e il mondo, e in particolare gli Stati Uniti. I sostenitori della linea dura hanno contrastato i suoi sforzi, ma il suo governo era arrivato all’accordo sul nucleare. Si è trattato di un dialogo importante, il nostro popolo aveva un’ottima impressione del presidente Barack Obama e di John Kerry. Anch’io apprezzavo il loro sguardo pacifico nei confronti dell’Iran. Ma purtroppo l’accordo è stato stracciato da Donald Trump, tutti gli sforzi sono falliti. Non so chi di affidabile sia rimasto tra i moderati, ma so che la moderazione è un principio che non si limita solo a uno speciale individuo. Se la moderazione si rinnoverà nella politica del Paese sarà possibile tornare ad avere persone di cui fidarci. Il principio della moderazione non è ancora morto e io, contrario alla guerra, devo conservare una finestra nella mia mente attraverso la quale poter sperare, perché credo che un conflitto tra Stati Uniti e Iran sarebbe diverso da uno con l’Iraq o qualunque altro Paese. La guerra non si limiterebbe all’Iran, sarebbe disastrosa per tutta la regione. Devo sperare nella possibilità di dialogo e di riconciliazione tra il mio Paese e il mondo. Quindi non sono disperato. O, se lo sono, non mi piace dirlo».