Corriere della Sera - La Lettura
I mari e gli abissi del figlio del lupo
«Ricordati sempre che io sono un costruttore...». È lo stesso Jack London a consegnare a sua sorella Eliza una lucida definizione di sé. E infatti lo vediamo instancabile costruttore per tutta la sua breve vita, così come viene raccontata da Romana Petri nel romanzo biografico Figlio del lupo (Mondadori). Da cui emerge però anche l’opposto: oltre a essere un gran costruttore, Jack fu un tenace distruttore. Per esempio nel momento chiave che coincide con la separazione da Bessie Maddern, sua prima moglie, da cui aveva avuto due figlie. È una decisione alla quale ripenserà con senso di colpa per il resto dei suoi giorni. Qualche volta, invece, ciò che Jack London prova a costruire gli viene distrutto da ignoti. È un altro momento chiave: la notte in cui va in fiamme il suo progetto più ambizioso, la Tana del Lupo, la casa attorno a cui aveva immaginato il suo megaprogetto agricolo (e filantropico) e che, appena terminata, venne incenerita da un incendio.
Autodistruttiva, dopo tanta energia edificante in senso proprio, sarà l’uscita di scena: non un vero suicidio ma una morte lenta per sfinimento e/o per una malattia volutamente trascurata. È una vita nutrita dalla determinazione del genio che sa di essere un genio e dal coraggio che sfuma nell’incoscienza. La determinazione costruisce ciò che l’incoscienza talvolta annienta.
Tra opposti estremi, in realtà, si muove Jack London, più che amato, adorato ciecamente dal pubblico (spesso donne in visibilio): «Tu — gli scrive l’amico Cloudesley — sei tanti uomini in uno solo. Forse, per questo qualcuno potrà anche dire che sei pieno di contraddizioni, ma vita e letteratura in te camminano sempre insieme». È un affascinante ritratto, quello che disegna Romana Petri, fondandosi, oltre che su documenti, anche su una buona dose di immaginazione empatica capace di restituire gli ambienti e le atmosfere della California a cavallo tra Otto e Novecento, e di intuire dialoghi, stati d’animo, sguardi, psicologie complesse. E sentimenti incostanti. Come quelli che legano Jack alle donne della sua vita, considerando che le figure femminili sono nettamente prevalenti nel romanzo di quest’uomo ottimista e maledetto, irresistibilmente attraente e attratto dall’amore. Prima vengono la madre Flora (la «pazza») e la sorella maggiore. Madre sensitiva, interprete a suo modo del mondo dei morti (di cui il figlio diffida), inaffidabile e anaffettiva, ma sempre strenuamente fiduciosa nelle qualità di quell’eterno ragazzo e futuro scrittore. Semmai pronta, per capriccio e gelosia, a gettare fango sulle sue amanti, specie le spose promesse. Elize rimedia alle lacune materne: è lei che lo tira su, lo rassicura, lo sostiene non solo materialmente fino alla fine. E nel cerchio familiare la terza presenza femminile è la vecchia balia Jenny: fantastica nera madre di latte dai seni immensi e accoglienti, cui sono dedicate pagine vivide.
È un mondo quasi esclusivamente fe mminil e , d a c u i i l p a d r e n a t u r a l e (astrologo ambulante e scrittore a sua volta) se l’è data a gambe per sempre e da cui è scomparso anche il mite padre adottivo John (coltivatore e allevatore, ma soprattutto indimenticato e rimpianto dal figliastro), morto prematuramente, si dice, «per colpa di Flora»: due assenze che imprimono nel carattere di Jack una costante ambivalenza tra fuggire e restare, un’ambizione divisa tra scrittura e agricoltura, fantasia e piedi per terra.