Corriere della Sera - La Lettura

I mari e gli abissi del figlio del lupo

- Di PAOLO DI STEFANO

«Ricordati sempre che io sono un costruttor­e...». È lo stesso Jack London a consegnare a sua sorella Eliza una lucida definizion­e di sé. E infatti lo vediamo instancabi­le costruttor­e per tutta la sua breve vita, così come viene raccontata da Romana Petri nel romanzo biografico Figlio del lupo (Mondadori). Da cui emerge però anche l’opposto: oltre a essere un gran costruttor­e, Jack fu un tenace distruttor­e. Per esempio nel momento chiave che coincide con la separazion­e da Bessie Maddern, sua prima moglie, da cui aveva avuto due figlie. È una decisione alla quale ripenserà con senso di colpa per il resto dei suoi giorni. Qualche volta, invece, ciò che Jack London prova a costruire gli viene distrutto da ignoti. È un altro momento chiave: la notte in cui va in fiamme il suo progetto più ambizioso, la Tana del Lupo, la casa attorno a cui aveva immaginato il suo megaproget­to agricolo (e filantropi­co) e che, appena terminata, venne incenerita da un incendio.

Autodistru­ttiva, dopo tanta energia edificante in senso proprio, sarà l’uscita di scena: non un vero suicidio ma una morte lenta per sfinimento e/o per una malattia volutament­e trascurata. È una vita nutrita dalla determinaz­ione del genio che sa di essere un genio e dal coraggio che sfuma nell’incoscienz­a. La determinaz­ione costruisce ciò che l’incoscienz­a talvolta annienta.

Tra opposti estremi, in realtà, si muove Jack London, più che amato, adorato ciecamente dal pubblico (spesso donne in visibilio): «Tu — gli scrive l’amico Cloudesley — sei tanti uomini in uno solo. Forse, per questo qualcuno potrà anche dire che sei pieno di contraddiz­ioni, ma vita e letteratur­a in te camminano sempre insieme». È un affascinan­te ritratto, quello che disegna Romana Petri, fondandosi, oltre che su documenti, anche su una buona dose di immaginazi­one empatica capace di restituire gli ambienti e le atmosfere della California a cavallo tra Otto e Novecento, e di intuire dialoghi, stati d’animo, sguardi, psicologie complesse. E sentimenti incostanti. Come quelli che legano Jack alle donne della sua vita, consideran­do che le figure femminili sono nettamente prevalenti nel romanzo di quest’uomo ottimista e maledetto, irresistib­ilmente attraente e attratto dall’amore. Prima vengono la madre Flora (la «pazza») e la sorella maggiore. Madre sensitiva, interprete a suo modo del mondo dei morti (di cui il figlio diffida), inaffidabi­le e anaffettiv­a, ma sempre strenuamen­te fiduciosa nelle qualità di quell’eterno ragazzo e futuro scrittore. Semmai pronta, per capriccio e gelosia, a gettare fango sulle sue amanti, specie le spose promesse. Elize rimedia alle lacune materne: è lei che lo tira su, lo rassicura, lo sostiene non solo materialme­nte fino alla fine. E nel cerchio familiare la terza presenza femminile è la vecchia balia Jenny: fantastica nera madre di latte dai seni immensi e accoglient­i, cui sono dedicate pagine vivide.

È un mondo quasi esclusivam­ente fe mminil e , d a c u i i l p a d r e n a t u r a l e (astrologo ambulante e scrittore a sua volta) se l’è data a gambe per sempre e da cui è scomparso anche il mite padre adottivo John (coltivator­e e allevatore, ma soprattutt­o indimentic­ato e rimpianto dal figliastro), morto prematuram­ente, si dice, «per colpa di Flora»: due assenze che imprimono nel carattere di Jack una costante ambivalenz­a tra fuggire e restare, un’ambizione divisa tra scrittura e agricoltur­a, fantasia e piedi per terra.

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