Corriere della Sera - La Lettura
Racine con un po’ di Jim Morrison
«Bajazet» con la regia del tedesco Frank Castorf era uno degli spettacoli più attesi del festival Vie, organizzato da Emilia-Romagna Teatro e in parte cancellato a causa del coronavirus. Lo avevamo visto a Losanna
Si può scegliere, tra Shakespeare e Racine. Si può in base alle proprie inclinazioni. Ma è certo che, tra i grandi scrittori di tragedie moderne, vi dovesse essere una scelta, non è che tra l’inglese e il francese. È un tema che in modo indiretto pose nel 1906 l’inglese Giles Lytton Strachey, polemizzando con i suoi connazionali, che Racine lo rifiutavano a priori. «Ogni arte — scriveva in Books and Characters — è basata su una selezione, e l’arte di Racine selezionò, per la materia dell’opera sua, le opere dello spirito. Le cose del senso — oggetti fisici e particolari, e necessità insignificanti che fanno parte della macchineria dell’esistenza — dovevano a ogni costo essere tenute fuori dal quadro». Al contrario, i tragici elisabettiani rappresentano «non soltanto la catastrofe, ma l’intero sviluppo delle circostanze che ne erano la causa. Essi dipingevano, con particolari precisi e abbondanti, il sorgere, il crescere, il declino e la rovina di grandi fatti e di grandi personaggi».
Ma la natura di Racine, la sua stessa musica, non allontana (o allontanava) soltanto gli spettatori inglesi. Noi italiani, che potremmo intenderlo meglio, non ne siamo meno alieni. Dico che potremmo intenderlo meglio, nonostante uno degli amici più cari di Racine, Nicolas Boileau (lo ricorda Sainte-Beuve nel suo monumentale Port-Royal) avesse deciso che Petrarca e Tasso, che covavano nell’autore di Fedra, erano stati respinti: «La bellezza greca trionfò sulla bellezza italiana, più complicata e sottile».
Può darsi che Boileau avesse ragione. Come spettatore assiduo di teatro, di Racine non ricordo che cinque spettacoli, aggiungendovi ora Bajazet di Frank Castorf: una coproduzione d’una quantità di teatri europei, compreso il nostro Emilia-Romagna Teatro. Sarebbe dovuto andare in scena allo Storchi di Modena il 1° marzo a conclusione della rassegna Vie, in gran parte cancellata a causa del coronavirus. Lo aspettavo con trepidazione, nonostante lo avessi già visto, o proprio perché a Losanna lo avevo visto. Bajazet di Castorf è uno spettacolo complesso: avrei voluto capirlo meglio. È Racine messo in scena da un regista tedesco; avevo visto un’Andromaque per la regia di un inglese di talento, Declan Donnellan; una Phèdre per la regia di un francese di genio, Patrice Chéreau; una Bérénice di Faustin Lynekula, un regista di origine congolese, e per la verità intitolata Pour en finir avec Bérénice; e due soli spettacoli italiani, una Berenice di Sandro Sequi, e un’altra Fedra, messa in scena da Luca Ronconi nel 1984. Sinceramente, avrò dimenticato qualcosa, e qualcosa, qui da noi, non avrò visto. Ma se penso che lo stesso spettacolo di Ronconi fu insoddisfacente, nonostante godesse della traduzione di Giovanni Raboni ora compresa nel Meridiano dedicato a Racine, tra noi e Racine, come tra Racine e gli inglesi, qualcosa che non torna ci deve essere.
C’è probabilmente in radice, con tutto il giansenismo di cui lo scrittore era imbevuto. La sua educazione di orfano nel monastero di Port Royal, che riappare