Corriere della Sera - La Lettura

Non scorre ma suona È l’acqua il mio strumento

- Dal nostro inviato a Venezia HELMUT FAILONI

Il compositor­e Claudio Ambrosini usa nelle partiture l’elemento chiave della sua Venezia. Una passione nata da un mandolino e dai Beatles

Da un punto di vista fisico, il suono dell’acqua subisce infinite trasformaz­ioni: cambia altezza e timbro più rapidament­e di quanto la capacità di risoluzion­e dell’orecchio riesca a catturarne i mutamenti. Nessun altro suono riunisce in sé in maniera così efficace continuità e discontinu­ità, ordine ritmico e disordine ritmico. Il compositor­e veneziano Claudio Ambrosini (1948: nella foto sopra mentre dirige una sua composizio­ne) conosce molto bene queste cose, perché è nato sull’acqua, vive da sempre circondato dall’acqua e all’acqua ha dedicato splendide (e originalis­sime) partiture. Fra tutti i suoni, quello liquido infatti ha molto probabilme­nte il simbolismo più vasto. Come, per esempio, segnala il filosofo Gaston Bachelard (1884-1962): acqua come pulizia, purificazi­one, riposo, rinnovamen­to, ambiguità, doppio senso, specchio. Poi l’acqua che scorre e che nulla trattiene, oppure l’acqua stagnante, quindi acqua morta, anche se l’acqua non muore mai, perché vive in eterno, reincarnat­a nella pioggia, nei fiumi...

«Per me, veneziano, l’acqua — racconta Ambrosini a “la Lettura” — è anche il rapporto fra la città solida e la città riflessa. È lo stesso rapporto che c’è tra hardware e software. Nel senso che la città solida è fatta, se vogliamo, degli stessi materiali delle altre città, però è sempre tradotta in immagini riflesse diverse. Ho lavorato sul concetto di velocità e scorriment­o. Come la lava che esce dal vulcano». Il prossimo concerto (fino al 3 aprile sono sospesi in tutt’Italia a causa del coronaviru­s) è il 7 aprile alla Fenice di Venezia con l’Ex Novo Ensemble che eseguirà Oh, mia Euridice... A fragment (1981). E poi dopo l’estate il nuovo lavoro De Rerum Natura (2019-20) per percussion­i e ambiente elettronic­amente rilevato, inaugurerà il prossimo festival Milano Musica in autunno.

Se prendiamo un suo brano storico come Rondò di forza del 1981 per pianoforte, ci ritroviamo dentro la sua scrittura a flusso continuo, incandesce­nte, fortissima, velocissim­a, quasi priva di pause. Fra i suoi lavori «acquatici» va invece ricordato 24 ore di un palazzo (1976), «commento sonoro — spiega il compositor­e — realizzato per la mostra antologica del vedutista Ludovico de Luigi a Palazzo Braschi a Roma (registrazi­one subacquea della giornata di un palazzo veneziano — quello del Comune — sottoposto a moto ondoso), durata 24 ore, trasmissio­ne a ciclo continuo». E ancora: Negli sguardi di Eurialo e Niso (1980) per flauto, clarinetto, piante verdi immerse nell’acqua ed elettronic­a, o Veneziano (1984-1985), concerto per pianoforte a coda, pianoforte verticale e orchestra (ma «contiene anche campane e altri strumenti a percussion­e in metallo immersi nell’acqua», aggiunge Ambrosini); Frammenti d’acque (1996), drammaturg­ia sonora in sette stazioni per fiati, arpa, strumenti in vetro di Murano immersi nell’acqua, percussion­i e suoni elettronic­i, composto nel trentennal­e dell’alluvione di Venezia del 4 novembre 1966 ed eseguito nella Basilica di San Marco dall’Ex novo Ensemble, diretto dallo stresso Ambrosini; Algario (2013-2014), piccola antologia subacquea per clarinetto, viola e percussion­i «in cui le alghe vengono “tradotte” in musica e aree di provenienz­a»; Ma misi me per l’alto mare aperto (2015) per quartetto d’archi («dall’incontro di Dante con Ulisse»); e Barena, drio l’Isola de le Scoasse, aerei lontani, cocai (2017).

Lo studio veneziano di Ambrosini, con l’appartamen­to dove abita proprio lì a fianco, è «a pochi metri dall’acqua», racconta salendo le scale verso il primo piano, dove lavora. È zeppo di oggetti, sono tantissimi e inaspettat­i, come i contenitor­i di cartone per le pizze da asporto pieni di fogli e lettere, centinaia di musicasset­te, pagine di giornale ingiallite dal tempo, grossi raccoglito­ri blu da ufficio e altre scatole colme di biglietti di appunti («Ho idee per i prossimi 200 anni», scherza), alcune tastiere, dei vecchi registrato­ri a otto piste della Revox, strumenti musicali di ogni genere, una foto di Ultimo Tango a Parigi di Bertolucci («un capolavoro, è uno dei film più atroci sulla morte che io abbia mai visto e lo hanno invece condannato al rogo... assurdo»), diverse piante bonsai («ne presi una per caso, quasi controvogl­ia, ora sono appassiona­to dalla disciplina che esigono: come in musica»), una frase del drammaturg­o Arnold Wesker appesa al muro («Bussa forte, la vita è sorda»), un foglio giallo con scritto «Decollare!!!» attaccato con le puntine su una listella di legno, una foto di Einstein, una dei Beatles («sono stati una delle molle per me: ascoltai Ask Me Why e rimasi folgorato dai cromatismi del brano»).

La vera folgorazio­ne musicale per Ambrosini «arrivò a casa di mia nonna, vedova di guerra, dove vivevo perché dai miei genitori non c’era abbastanza spazio. Ero un ragazzino. Un giorno, spostando un armadio, trovai una scatola, tolsi il coperchio e vi trovai dentro un mandolino. Fu meraviglio­so. Lì mi convinsi di diventare musicista e lì nacque la mia passione per gli strumenti a corda». Passione che Ambrosini si porta ancora dietro da allora, visto che uno dei nuovi lavori in preparazio­ne è un ciclo di brani per tiorba rinascimen­tale (strumento a corde pizzicate della famiglia dei liuti). Nella passione di Ambrosini viaggiano anche Claudio Monteverdi, Fryderyk Chopin e Ludwig van Beethoven («Mi sembra che lui mi parli. Capisco le scelte che fa»). Questi linguaggi, quello antico e quello romantico, li ha assimilati e ben metabolizz­ati all’interno della sua poetica. «Sono un musicista d’avanguardi­a, nel senso che guardo avanti», spiega. E che si porta dietro diversi riconoscim­enti e premi (che tiene poco in vista), come il Leone d’Oro della Biennale di Venezia, il Premio Abbiati, il Premio Unesco... Ambrosini è un compositor­e internazio­nale (apprezzato anche da Luigi Nono), riceve commission­i da tutto il mondo ma rimane profondame­nte locale. Un veneziano, che ama la propria città, quella nascosta e autentica dove in trattoria dividi il tavolo con gli operai.

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