Corriere della Sera - La Lettura
Il pittore delle tribù fa rinascere la storia delle tribù
Kent Monkman, origini Cree, espone due grandi tele all’ingresso del Met. Qui spiega perché
La pittura di storia come antidoto alla rimozione. Le allegorie, due dipinti di tre metri per sei ( Welcoming the Newcomers e Resurgence of the People), campeggiano nella Great Hall, il salone principale del Metropolitan Museum di New York, attraversato dal flusso continuo dei visitatori. Le opere sono state commissionate all’artista di origine Cree (popolo indigeno del Nord America) Kent Monkman, 55 anni, nell’ambito di un programma di acquisizioni che guarda con interesse a un tema, il punto di vista delle minoranze, sempre più centrale nel dibattito culturale e politico negli Stati Uniti e a livello globale. Il richiamo iconografico a capolavori della collezione permanente, dalle sculture egizie al romanticismo, che scandiscono momenti chiave nella storia dell’arte occidentale, viene riplasmato dall’autore per tessere la sua contronarrazione.
Da outsider, Monkman si è appropriato di codici e stilemi riconducibili alla tradizione del Vecchio Mondo per dare voce ai nativi del suo Paese, il Canada, la cui memoria è stata spazzata via assieme alla terra.
Perché confrontarsi con un genere codificato, la pittura di storia, per parlare di diversità e cultura indigena?
«Da persona di origine Cree, guardando alla storia dell’arte occidentale credo che la pittura di storia sia uno strumento straordinario, abbandonato dagli europei con l’avvento del modernismo. Da quando la fotografia ha soppiantato la pittura come mezzo per raccontare storie, il bisogno di dipingere si è trasformato in espressione emotiva. Tuttavia, la scala e la complessità della pittura di storia consentono di esplorare una varietà di temi e narrazioni che sarebbero inaccessibili con il linguaggio riduttivo del modernismo. Con l’imposizione della cultura e dei valori dei colonizzatori europei le nostre tradizioni e la nostra lingua sono state marginalizzate, fino al punto in cui ci siamo ritrovati a occupare lo 0,2 per cento del nostro territorio. Attraverso la pittura di storia ora posso legittimare nel canone della storia dell’arte esperienze indigene che erano state cancellate».
Nel mondo globalizzato l’immigrazione è un tema di portata storica: come si può gestire una fase così difficile, conciliare l’equità e la solidarietà con i limiti del capitalismo?
«I popoli indigeni hanno provato sulla propria pelle la spoliazione delle terre da parte delle nazioni che ci hanno colonizzati e, finché non vedremo riconosciuti i nostri diritti, continueremo a richiamare l’attenzione della comunità internazionale sul furto che abbiamo subito. Con la mia arte ricordo le politiche coloniali di genocidio e scuoto l’oblio importato dalla cultura della modernità. Canadesi e americani sono incoraggiati a dimenticare chi fossero i proprietari originari della terra che occupano, mentre la maggior parte dei musei sposa la menzogna per cui gli indigeni si sono estinti semplicemente come una razza scomparsa. Noi continuiamo a esistere e non smetteremo di lottare per i nostri diritti e la restituzione delle nostre terre».
La politica di Trump ha innescato una situazione molto critica al confine con il Messico: le immagini delle famiglie di migranti divise dagli agenti di frontiera hanno fatto il giro del mondo, suscitando indignazione anche tra gli americani. Mentre si avvicinano le prossime elezioni presidenziali, ritiene possibile un cambiamento?
«Le comunità indigene del Nord America sanno bene cosa significhi vedersi strappare i propri figli, trasferiti in modo forzato nelle scuole dei colonizzatori tra la fine dell’Ottocento e gli anni Ottanta del secolo scorso. Ancora oggi è spropositato il numero di ragazzi indigeni dati in affidamento. Le Nazioni Unite hanno bollato come genocidio il trasferimento coatto dei nostri figli a un altro gruppo culturale ed è quello che ancora oggi sta accadendo al confine meridionale degli Stati Uniti. Non so prevedere come andranno le elezioni, ma diffido di una società guidata dai valori estremi del capitalismo che continua ad accrescere il dislivello tra ricchi e poveri».
Dai dipinti alle performance, lei si avvale spesso di un avatar, Miss Chief Eagle Testickle, che ricorda sdoppiamenti celebri nella storia dell’arte, come Rrose Sélavy, l’alter ego di Marcel Duchamp: qual è il suo rapporto con le avanguardie e perché ritiene importante affrontare il tema della fluidità di genere?
«Miss Chief si basa sugli individui delle comunità indigene del Nord America, che attraversavano i generi al di fuori dello schema eteronormativo della sessualità. Le nostre comunità abbracciavano il genere e la diversità sessuale in un modo che va oltre il modello binario maschile/femminile dei colonizzatori europei. Sono molto orgoglioso del fatto che gli indigeni non si scontrassero con l’identità sessuale e di genere come gli europei, repressi dalla cultura giudaico-cristiana. Ho creato Miss Chief per rafforzare la rappresentazione della sessualità indigena e la comprensione della fluidità di genere».