Corriere della Sera - La Lettura
Il nostro baby-sitter è un assassino
La storia raccontata dall’australiano Trent Dalton è diventata un caso editoriale. Si tratta della vicenda, autobiografica, di due fratelli cresciuti tra droga, sangue, tenerezza. Ne parla con un altro scrittore per ragazzi
Tre parole, staccate, per quello che gli anglosassoni chiamano il pitch di una storia, ovvero l’essenza. Il ragazzo in questione si chiama Eli, e il suo universo è Brisbane, in Australia. Ra
gazzo divora universo di Trent Dalton è la storia di due fratelli alle prese con una mamma drogata, un padre ubriaco che vive circondato da cataste di libri economici, un patrigno che spaccia, una ristoratrice thai che controlla il mercato dell’eroina di strada e un saggio babysitter che ha appena scontato una condanna per omicidio. Ed è una storia d’amore struggente e variegata, una gran lotta contro il tempo e la società, senza alcun tentativo di evasione dalla vita di tutti i giorni, anche se abbietta. Non ci sono mondi paralleli in cui scappare o armadi che comunicano con regni fantastici. La fisica quantistica, qui, è affidata ad August, fratello del protagonista, che scrive messaggi profetici con il dito a mezz’aria e che per un terzo buono del libro si rifiuta di parlare. Quando lo farà, sarà per cercare di salvare — invano — un dito al fratello. Eli, il ragazzo con 9 dita, racconta la loro vicenda in una prima persona maestosa, sovraccarica, elettrica, a volte superficiale e strafottente, a volte dolcissima e profonda, che è la stessa voce con cui mi parla il suo autore. Ci dividono dieci ore di fuso orario, ma lui se le mangia in pochi bocconi.
Devo essere del tutto sincero, con te, Trent. Se non mi avessero detto: leggilo, e mi fossi fidato, mi sarei perso una delle cose migliori che mi sia capitata tra le mani negli ultimi anni. Con la massima invidia: da dove ti è saltata fuori?
«Da nessuna parte, amico. È la mia storia, più o meno. Cosa credi? Che mi sia potuto inventare tutto? No. Io ci sono cresciuto, lì. Mia mamma si è davvero innamorata di uno spacciatore. E ci è andata due anni, in carcere, lasciandoci da soli con mio padre. Mio fratello, be’, il mio fratello vero, che si chiama Jesse, era come August nel libro: aveva questo dono, scriveva le cose in aria, capisci? Senza mai dirmi cosa. Erano affari tra lui e il cielo, mi diceva, cose che non mi riguardavano, ma che avevano a che fare con l’Universo. Sapeva tutto prima di me, Jesse, e non solo perché andava benissimo a scuola. Hai presente Ritorno al futuro? Ecco, lui era così, ma senza avere bisogno della macchina del tempo. Aveva una sua macchina per il presente, e gli bastava».
Quindi non ti sei inventato nemmeno Slim Halliday, l’assassino che gli fa da babysitter?
«Certo che no. L’ho conosciuto poco, meno di quanto avrei voluto, e parte della sua vita personale, delle sue fughe dal carcere e del motivo per cui era dentro, l’ho scoperta dopo, quando ormai ero cresciuto. Le ho cercate perché tutti mi chiedevano: ma davvero hai conosciuto Slim Hallyday? La risposta è sì. E tutto quello che dice ad Eli e ad August, tutte le frasi, sono quelle che lui ha detto a me».
Slim Halliday è stato considerato per anni un vero nemico pubblico, uno che scontò un ergastolo per avere ucciso un tassista, senza mai confessare il contrario. Passò la sua carriera da carcerato a cercare di evadere, cosa che gli riuscì in almeno tre diverse occasioni. Nel libro è ormai anziano, ma ancora affilato. Ha visto cose che altri nemmeno potrebbero immaginare, soprattutto nella camera buia dell’isolamento. E lì, al buio, da solo, ha capito come battere il tempo, prima che lui batta te: ha capito come farlo accorciare e allungare a suo piacimento. Tu sai farlo?
«Ah, è la cosa più difficile di tutte: Eli ci riesce, perché il tempo lo ignora, nel senso che ignora tutte le norme e le convenzioni sociali. Ignora di essere troppo giovane per fare il cronista per il giornale locale. Ignora che possa essere un problema avere otto anni in meno della ragazza che ama. Ignora che se si mette in mezzo a due bande di trafficanti di eroina potrebbe beccarsi una pallottola, o essere fatto a pezzi da qualche thailandese».
Tutte esperienze della tua vita, immagino.
«Nel libro ci sono tante cose vere e cose che vorrei che fossero state vere, amico mio. Ad esempio, Eli riesce a entrare nel carcere per Natale a fare gli auguri a sua mamma. Pianifica tutto, soprattutto come uscire, una volta che è dentro, con i consigli di Slim. Mentre io, nella vita vera, non ci andai. Ho provato a metterci una pezza con il libro. È per questo che si scrive, no? Per raccontare le cose che non sono successe e che invece avrebbero dovuto succedere. Così poi sono successe, magari
più di tecnologia e analisi scientifiche: «Con l’avvento della prova del Dna nei processi, in molti casi la scienza aveva sostituito le indagini», riflette rattristato Bosch.
Per fortuna, contro certe procedure troppo fredde c’è sempre Bosch a ricordare che «contano tutti oppure non conta nessuno» ( Everybody counts or nobody coun
ts) e forse è l’aspetto che più lo avvicina a Ballard. Che si tratti di un detenuto, di un giovane senzatetto morto in un incendio (in realtà il rampollo di una facoltosa famiglia), di un gruppo di studentesse minacciate da un maniaco, della moglie di un boss con la pistola in mano, la
pietas di Connelly attraversa tutto il romanzo, traspare in una battuta tra i due detective; in una descrizione della loro vita da «outsider», emarginati di genio fagocitati dalla Città degli Angeli — dove tutti corrono per evitare l’ora di punta —; in una frase apparentemente di routine: «Ti chiamo non appena sono libero e andiamo insieme. Nel frattempo puoi dormire un po’...».
È questa umanità speciale a catturare il lettore, a sedurlo oltre l’impeccabile trama. Anche se nella Fiamma
nel buio c’è un elemento in più per godersi lo spettacolo: un sensazionale cameo di Mickey Haller, l’avvocato «fratellastro di Bosch». Il talento del legale, l’istinto del detective in alcune formidabili pagine.