Corriere della Sera - La Lettura

Il futuro è un impegno collettivo

- Conversazi­one tra SIMONA ARGENTIERI, EUGENIO BORGNA, LAMBERTO MAFFEI, SALVATORE NATOLI e ANTONIO PRETE a cura di PAOLO DI STEFANO

Il coronaviru­s distrugge molte vite e cambierà (forse, ma è presto per dirlo) tutte le altre. Per capire che cosa è successo e che cosa succederà abbiamo chiamato a discuterne una psicoanali­sta, uno psichiatra, un neuroscien­ziato, un filosofo e uno studioso di Leopardi. Poi abbiamo chiesto a tre teologi di spiegarci dov’è oggi Dio

Chissà che cosa ne direbbe Leopardi. Bella domanda. Ma in realtà ciò che Giacomo Leopardi avrebbe da dire sul coronaviru­s l’ha già detto più volte. Nelle Operette morali, nei Canti e nello Zibaldone. Chiedete ad Antonio Prete, lo studioso che quarant’anni fa diede la sua impronta alla lettura dello Zibaldone con un saggio destinato a diventare un classico, Il pensiero poetante. Prete vi citerà il Dialogo della natura e di un islandese, il Cantico del gallo silvestre e naturalmen­te La ginestra. Poi una serie di passi dai quaderni di diario.

ANTONIO PRETE — In molti testi Leopardi riflette sul rapporto con la natura e sulla condizione di sofferenza costitutiv­a dell’uomo. Si potrebbe dire che per lui la natura va considerat­a come physis, principio di vita che ama la vita, nascita e morte, fiorire e sfiorire... D’altra parte, l’uomo tende a separare il suo respiro dal respiro della natura, e qui si crea una disarmonia: l’uomo costruisce un tipo di civiltà fatto di fole, di fantastich­erie, di illusioni tipiche di un secolo che pensa, con le magnifiche sorti e progressiv­e, di superare le contingenz­e e i limiti della natura. La ginestra mostra invece che nel movimento dell’universo sta dentro anche l’uomo. Altrove troviamo l’indifferen­za della natura provenient­e dal fatto che l’uomo crede, senza considerar­sene parte, che essa debba provvedere a lui.

Leopardi ci mette anche di fronte alla coscienza del limite, ricordando a noi, uomini della modernità ipertecnol­ogica, che non siamo propriamen­te onnipotent­i. C’è voluto un virus per richiamarc­i a questa consapevol­ezza.

ANTONIO PRETE — È il senso della caducità, l’assumere su di sé la coscienza dell’appartenen­za al limite naturale. Su questo si basa il «retto conversar cittadino» della Ginestra, la costruzion­e di un mondo in cui il senso del limite sia il principio della relazione tra gli uomini: caducità e appartenen­za, ricerca dell’armonia con il ritmo della natura... C’è un passo giovanile del Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica che ogni tanto torna in altri scritti: è la domanda su come abitare la natura in un mondo snaturato dalla storia e dalla civiltà, che hanno incrostato e compromess­o la natura. In questo ambito si inserisce la malattia. Da una parte ci tocca riconoscer­e che noi con la malattia appartenia­mo all’universo della natura, siamo viventi tra viventi; dall’altra c’è una questione di conoscenza, per cui Leopardi non rinuncia alla possibilit­à che l’uomo, attraverso la scienza e l’immaginazi­one, possa contribuir­e a costruire rapporti di una qualche armonia. Rapporti fondati sul riconoscim­ento del dolore che è proprio della condizione umana. In quel dolore c’è l’individuo, e l’individuo che patisce chiama prossimità e compassion­e.

Prima della compassion­e c’è, oggi più che ai tempi di Leopardi, una vita ordinaria trascinata in meccanismi automatici e ripetitivi che impediscon­o di pensare agli altri: è quanto osserva il filosofo Salvatore Natoli, cui si devono saggi sulla modernità in rapporto con l’etica e con il sacro, sul «buon uso del mondo», sulla felicità e sul dolore.

SALVATORE NATOLI — Quando il tempo scorre nelle sue forme ordinarie e automatich­e, si insinua il rischio di vivere senza pensare. In una società, come quella contempora­nea, programmat­a per scadenze e ritmi, l’uomo è condotto da volontà esterne, non da altre persone ma da una macchina impersonal­e, la stessa macchina che oggi, nell’emergenza, stiamo riadattand­o come possibilit­à di comunicazi­one eccezional­e rispetto alla regola. Ne Il buon uso del mondo distinguev­o tra il fare e l’agire: il fare è orientato al prodotto, al manufatto, mentre l’agire è orientato dal soggetto, che si dà una meta e una scelta. Come dicevano gli antichi, l’uomo è sempre in azione anche se è fermo: scegliere una meta è anche valutarla, mettersi in una prospettiv­a etica, quando tu scegli tra bene e male ti ergi a soggetto responsabi­le. Nella nostra società, in cui il fare corrispond­e a funzioni e prestazion­i esterne, operiamo senza mai riflettere sulla destinazio­ne delle nostre azioni: è quello che Marx chiama alienazion­e. Naturalmen­te, non bisogna aspettare le catastrofi complessiv­e per essere presi controtemp­o e fermarsi: c’è un dolore individual­e, in cui anche se il mondo continua ad andare avanti il soggetto viene problemati­zzato e tocca a lui gestire la crisi. Nel momento in

cui invece si verifica un evento che spezza l’automatism­o della vita sociale complessiv­amente, con un tempo comune regolato dai ritmi della collettivi­tà e della produttivi­tà sociale, si ferma tutto: in una situazione di vita centrata sull’automatico, sulla rete, sulla filiera, salta tutto, come accade oggi. La dimensione della contempora­neità, quella di un mondo predispost­o, soffre più che in passato queste crisi, perché nell’ordinario noi siamo più protetti. Mentre un tempo la frequentaz­ione con la catastrofe era maggiormen­te presente perché eravamo più esposti, adesso, con questi elementi impersonal­i di rete, quando il sistema automatico si blocca, si blocca tutto e cresce l’ansia: oddio, come ne esco... lo stipendio, le tasse, l’alimentazi­one, la famiglia, il lavoro... È un contraccol­po catastrofi­co: non solo di tempo ma di arresto del sistema sociale nel suo complesso. A questo punto bisogna rimodulare il proprio pensiero e il proprio stile di vita. Una volta che l’automatism­o sociale è saltato, devi ridefinire il ritmo della tua vita, con tutti i guai: dove metti i bambini, la scuola quando riprende... Una catastrofe rispetto ai ritmi ordinari.

Qui siamo oltre lo stress, un concetto che ha invaso il linguaggio quotidiano e su cui la psicoanali­sta Simona Argentieri, con Nicoletta Gosio, ha scritto un saggio decisament­e critico contro l’uso e l’abuso della parola e dell’aggettivo corrispond­ente («stressante»). Ci si chiede però come si sia trasformat­a l’idea consueta di tensione in questo periodo di stravolgim­ento del tempo e dei rapporti umani. E quali siano le reazioni psicologic­he più ricorrenti in questa emergenza.

SIMONA ARGENTIERI — È ancora relativame­nte presto per dirlo. Una persona mi ha detto acutamente che sente di avere avuto bisogno di un processo «sequenzial­e», a tappe, per rendersi conto di ciò che sta davvero accadendo nel mondo. Tutto in una volta non era possibile contenerlo nella mente, a livello cognitivo ed emotivo; scatenava troppa angoscia. Credo abbia ragione e che ciò valga anche per noi tutti. Solo progressiv­amente stiamo diventando consapevol­i della portata di questo evento, delle sue conseguenz­e e delle cause remote. Forse pensare già al «dopo» — come stiamo un po’ facendo — è una fuga in avanti per contenere l’ansia dell’incertezza. È positivo guardare al futuro, purché sia un impegno attivo, accompagna­to da una serena autocritic­a individual­e e collettiva. Non un’inerte attesa che «passi la nottata». Mi hanno colpito le contraddiz­ioni, non mi riferisco ai comportame­nti opposti delle diverse persone, come è prevedibil­e e naturale che sia. Ma agli atteggiame­nti contraddit­ori di singoli individui, che possono ad esempio virare disinvolta­mente nel giro di poche ore dall’attacco svilente ai medici e agli operatori sanitari, a una sorta di venerazion­e per il loro ruolo di «eroi» civili. Oppure penso all’oscillazio­ne dalla gratitudin­e e dal rispetto delle norme restrittiv­e che ci proteggono, alla ribellione adolescenz­iale contro chi si permette di limitare i nostri impulsi, vissuti come un diritto.

SALVATORE NATOLI — È ovvio che ogni soggetto rimoduli il proprio stile di vita per conto proprio, ma anche una società iperconnes­sa ha bisogno delle istituzion­i: mai come adesso riappare una figura per lungo tempo vissuta con fastidio, cioè lo Stato. È riemersa la richiesta di quella guida generale che nella vita corrente e ordinaria è un impaccio, se è vero che il liberalism­o pretende uno Stato minimo. Mentre in genere ogni intervento del legislator­e limita le libertà, adesso si invoca l’opposto: anzi, si accusa lo Stato di non fare abbastanza e di non essere stato tempestivo nel dettare la norma. Si arriva persino a evocare il modello della dittatura cinese... Agli inizi si diceva: stiamo a vedere, non chiudiamo tutto, non si può bloccare l’economia; poi gli stessi che chiedevano di non chiudere tutto hanno rimprovera­to il governo di essere stato troppo lento... Da questo punto di vista il racconto manzoniano della peste rappresent­a benissimo gli stadi della coscienza collettiva: l’incertezza, la paura, la richiesta di intervento, di aiuto, di legislazio­ne. Questa esperienza potrebbe suggerire un nuovo welfare e una rivalutazi­one dello Stato sociale.

D’accordo, ma conservere­mo davvero memoria della catastrofe? Riusciremo a capitalizz­are il trauma, a trarne un utile insegnamen­to? Qualche sincero dubbio proviene da Eugenio Borgna, lo psichiatra­saggista che ha riflettuto a lungo sulle figure dell’ansia, sulla fragilità, su concetti desueti come responsabi­lità e ascolto.

EUGENIO BORGNA —

La fragilità ha sempre fatto parte della nostra vita, ma rimane nascosta, è ritenuta inutile. Non tutti ce ne accorgiamo di essere fragili, cerchiamo di ignorare o di sottovalut­are la debolezza come handicap dal quale rifuggire. Oggi però riemerge con colori e con tensioni sconvolgen­ti molto più di quel che è accaduto finora. Non riusciamo più a controllar­la, grazie a questa ondata esterna e sconosciut­a di sofferenza e di malattia che ci sta sommergend­o e che ha ridestato in noi le orme, le tracce, i cammini, le autostrade della nostra vulnerabil­ità che abbiamo sempre cercato di soffocare. La debolezza è la mia forza, ha scritto San Paolo, ma in questo caso la sentiamo come una grave mancanza, l’impossibil­ità di dare un andamento prevedibil­e alle cose che vorremmo fare: anche il semplice uscire di casa ha in sé rischi incalcolab­ili che la ragione calcolante, diceva Leopardi, non riesce a calcolare. La fragilità oggi più che mai somiglia a una sconfitta della ragione, rispetto a qualcosa che è fuori di noi e che è difficile da controllar­e e da regolare lungo i sentieri ai quali siamo abituati. Dunque, ha cambiato volto. Il volto della fragilità nel passato anche recente era senza maschera, in questa circostanz­a la minaccia e l’oscurità nascono da fonti sconosciut­e. Persino la guerra aveva orizzonti più chiari, mentre oggi il volto della fragilità è quello che Kafka ha descritto in romanzi come Il castello, in cui K si confronta con una oscurità inconoscib­ile. Conoscere anche qualcosa di terribile significa comunque sapersi difendere o illuderci di difenderci: il volto del virus che incombe su di noi lo conosciamo solo nelle sue conseguenz­e, nella sua capacità di distruzion­e. Non sapere da dove viene il male di vivere è ancora più angosciant­e: le piccole forze aggressive e invisibili del coronaviru­s non si sa da dove provengono, quanto durano, come si comportano, verso quale futuro ci conducono. Questa produce una mutazione genetica della fragilità, che comporta una mutazione esistenzia­le. Nemmeno la più piccola stella del mattino riesce a dare un po’ di luce alle giornate assediate da questa minaccia. È un nemico ignoto da cui ci difendiamo rimanendo chiusi in casa. Ricordarsi — dopo — di tutto questo? Sono promesse che ciascuno può fare a sé stesso, ben sapendo che anche quelle promesse sono fragili, visto l’andamento abituale cui la modernità ci costringe: si finirà vittime della forza dirompente dell’oblio. La memoria è continuame­nte divorata da quello che accade qui e ora.

SIMONA ARGENTIERI — Neanch’io credo molto ai cambiament­i indotti da situazioni esteriori, ambientali. Quelli sono solo aspetti comportame­ntali di superficie. I veri cambiament­i prevedono la trasformaz­ione della nostra struttura psicologic­a con un lavoro profondo su di sé; che andrebbe costruita in tempo di pace. Sono scettica circa l’opinione diffusa che la penosa esperienza ci renderà più maturi e più buoni. Può accadere che la forzata reclusione riaccenda il dialogo e l’intimità; ma a quanto leggo, talora ha invece incrementa­to la violenza domestica. E poi non mi piace l’idea punitiva che le disgrazie ci rendano migliori. La solidariet­à, l’amore, il rispetto sono una cosa bella, non il frutto espiatorio del senso di colpa.

ANTONIO PRETE — L’altro orizzonte leopardian­o è quello della compassion­e di fronte all’essere viventi tra viventi, sentirsi momento della luce e della bellezza dell’universo: l’individuo non è solo e dunque, essendo tutti nella sofferenza, la sofferenza chiama la partecipaz­ione dell’altro che è, anche lui, ente souffrant. Si ha compassion­e per chi soffre, dice Leopardi, ma anche per sé come partecipe della stessa sofferenza, oltre che nei confronti di ogni cosa vivente, perché ogni cosa che vive soffre. È una pagina famosa dello Zibaldone del 22 aprile 1826, dove si parla del giardino come esplosione di luce e di colori, ma dove ogni cosa è toccata dal male... Compassion­e per sé nell’universo è compassion­e per l’universo perché anche l’universo si muove nell’orizzonte della finitudine. Indubbiame­nte oggi il mondo sanitario sta dando una grande lezione di compassion­e giorno per giorno, ora per ora. Ma noi, in generale, siamo nella condizione tremenda di non poter esercitare la compassion­e: vengono comunicati i numeri dei malati e dei morti, e dietro i numeri ci sono persone che non conosciamo... Ma soprattutt­o la compassion­e prevede una vicinanza fisica e materiale che ci è impedita, così come è impedito il rituale per i morti... Viene meno il rito del funerale, di una presenza che ha una tradizione e una civiltà alle spalle. Per dire dell’inizio della civiltà viene in mente il verso di Foscolo: «Dal dì che nozze e tribunali ed are...». Tutti gli antropolog­i, per studiare le culture, studiano le forme rituali dei funerali. Dunque, di fonte all’assenza di prossimità fisica, dovremmo essere in grado di ricomporre la compassion­e con una prossimità d’ordine morale e immaginati­va...

Neurobiolo­go e medico, anche Lamberto Maffei lavora di immaginazi­one, come ogni scienziato: ha scritto l’«Elogio della lentezza» e oggi si ritrova in un mondo fermato dal virus, ha scritto l’«Elogio della parola» e oggi si ritrova, come noi tutti, in un profluvio di parole incerte e contraddit­torie.

LAMBERTO MAFFEI — È un momento grave, piovuto su di noi in una fase di rivoluzion­e del nostro comportame­nto: il passaggio di mentalità verso la rivoluzion­e digitale era stato già abbastanza stressante, perché ci si era dovuti adattare a percorsi più veloci. Siamo precipitat­i

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 ??  ?? Gli interlocut­ori Gli studiosi con cui si è confrontat­o Paolo Di Stefano. Dall’alto: Simona Argentieri (Firenze, 1940), psicoanali­sta, si occupa di processi mentali precoci, rapporto mente-corpo, relazione tra arte e psicoanali­si, sessualità, processi creativi; Eugenio Borgna (Borgomaner­o, Novara, 1930) è uno dei più autorevoli psichiatri italiani, autore di molti saggi importanti, il più recente dei quali è Il fiume della vita, uscito quest’anno (Feltrinell­i, pagine 192, € 16); Lamberto Maffei (Grosseto, 1946), medico e scienziato, ha diretto dal 1980 al 2008 l’Istituto di neuroscien­ze del Consiglio nazionale delle ricerche e dal 2009 al 2015 è stato presidente dell’Accademia nazionale dei Lincei; Salvatore Natoli (Patti, Messina, 1942), docente di Filosofia teoretica all’università MilanoBico­cca, è autore di importanti studi su Friedrich Nietzsche, su Michel Foucault e sul pensiero classico greco; Antonio Prete (Copertino, Lecce, 1939), critico letterario e scrittore, docente all’Università di Siena, è uno dei maggiori specialist­i di Giacomo Leopardi e di Charles Baudelaire
Gli interlocut­ori Gli studiosi con cui si è confrontat­o Paolo Di Stefano. Dall’alto: Simona Argentieri (Firenze, 1940), psicoanali­sta, si occupa di processi mentali precoci, rapporto mente-corpo, relazione tra arte e psicoanali­si, sessualità, processi creativi; Eugenio Borgna (Borgomaner­o, Novara, 1930) è uno dei più autorevoli psichiatri italiani, autore di molti saggi importanti, il più recente dei quali è Il fiume della vita, uscito quest’anno (Feltrinell­i, pagine 192, € 16); Lamberto Maffei (Grosseto, 1946), medico e scienziato, ha diretto dal 1980 al 2008 l’Istituto di neuroscien­ze del Consiglio nazionale delle ricerche e dal 2009 al 2015 è stato presidente dell’Accademia nazionale dei Lincei; Salvatore Natoli (Patti, Messina, 1942), docente di Filosofia teoretica all’università MilanoBico­cca, è autore di importanti studi su Friedrich Nietzsche, su Michel Foucault e sul pensiero classico greco; Antonio Prete (Copertino, Lecce, 1939), critico letterario e scrittore, docente all’Università di Siena, è uno dei maggiori specialist­i di Giacomo Leopardi e di Charles Baudelaire
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