Corriere della Sera - La Lettura
E altre rivelatesi opache, come Bruno Contrada
la pubblicazione del rapporto. I rampanti degli anni Settanta sarebbero stati fatti fuori da Riina e dai suoi «soldati», che sterminarono gli avversari e proseguirono l’attacco allo Stato abbattendo, fra gli altri, proprio Giuliano (assassinato il 21 luglio 1979) e dalla Chiesa (ucciso il 3 settembre 1982 con la moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo).
All’epoca Giuliano lavorava alla Sezione omicidi della Squadra mobile di Palermo; dalla Chiesa comandava la Legione dei carabinieri. Altri estensori del documento hanno avuto un destino diverso: il commissario capo Bruno Contrada, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa tra gli anni Novanta e Duemila (seppure con una sentenza i cui effetti sono stati revocati, a pena interamente scontata, dopo la pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo); il vicequestore Emanuele De Francesco, promosso capo del servizio segreto civile (il Sisde) e alto commissario antimafia all’indomani del delitto dalla Chiesa. Tutti insieme, nel 1971, avevano denunciato con forza «lo strapotere mafioso reso sempre più audace dalle modifiche delle norme procedurali che hanno comportato l’impossibilità per le forze dell’ordine di un più adeguato controllo e intervento di quanti delinquono e, soprattutto, verso coloro che fanno parte delle organizzazioni criminose a tipo mafioso».
Le riforme legislative, insomma, favorivano i boss, al pari delle assoluzioni per insufficienza di prove sancite nel 1968 al processo di Bari contro gran parte dei denunciati. Gli imputati, si legge ancora nel rapporto, disponevano di molto denaro e buoni avvocati, e potevano conlatitanti, o detenuti, o soggiornanti obbligati o residenti in altre sedi, continuano a operare a livello direttivo ed esecutivo».
Ordinavano ed eseguivano ordini senza ostacoli di alcun tipo, a differenza delle forze di polizia che inciampavano in difficoltà indicate nello stesso rapporto: le relazioni tra mafiosi riallacciate subito dopo le assoluzioni e le scarcerazioni di Bari, «non furono né impedite né ostacolate dalle misure di prevenzione per molti degli ex imputati; ciò appare evidente sol che si considerino le incontrollabili possibilità di comunicare telefonicamente in teleselezione, la estrema facilità di ricevere visite o di avere incontri, nonché addirittura di rientrare nelle sedi di provenienza con regolari permessi ovvero, infine, di spostarsi nell’arco di poche ore e incontrollati, da una zona a un’altra a mezzo aereo, potendo chiunque declinare generalità di comodo per la prenotazione o l’acquisto di biglietti».
Quattro mesi e mezzo dopo questa denuncia, il 26 ottobre 1971, gli investigatori consegnarono ai magistrati un altro rapporto «relativo all’esito di ulteriori indagini a carico di Albanese Giuseppe + 84, e conseguente denunzia di altri associati». Al numero 23 dell’elenco compare «Riina Salvatore fu Giovanni», catalogato come «uno dei più pericolosi, temuti e sanguinari criminali della provincia di Palermo. Mafioso, contrabbandiere, killer». Tra i firmatari del documento, oltre a Giuliano e dalla Chiesa, il capitano dei carabinieri, futuro colonnello, Giuseppe Russo. Assassinato il 20 agosto 1977. Su ordine di Totò Riina e per mano di suo cognato, Leoluca Bagarella. La stessa che uccise anche Boris Giuliano.