Corriere della Sera - La Lettura
Rozzo di talento un modello per Biden
«Tutto inutile. Gli studi storici in America sono in mano ai professori di Harvard. Mi detestano. Hanno demolito Herbert Hoover, il presidente venuto dall’Iowa. Con loro non ha speranze nemmeno il rozzo Lyndon B. Johnson di Stonewall, Texas». Rinchiuso qui, nel suo sterminato ranch, a rielaborare con amarezza la sua esperienza alla Casa Bianca dopo la clamorosa decisione di non ricandidarsi alle presidenziali del 1968, Johnson rinunciò con queste parole a rivendicare il suo ruolo nella storia americana con un libro di memorie al quale i suoi assistenti stavano lavorando: «Meglio dedicarmi a quanto non possono distruggere, il mio ranch».
Malato di cuore, il 36° presidente degli Stati Uniti morirà qualche anno dopo, stroncato da un infarto. Decine di riforme — dai diritti civili alla creazione del welfare state, dall’estensione del diritto di voto all’apertura degli Usa a un’immigrazione fino ad allora limitata all’Europa occidentale — sono state dimenticate, sepolte sotto le ceneri del Vietnam, da una società che non si rende conto di essere stata profondamente ridisegnata da quel leader per nulla amato. Nella memoria degli americani Johnson è un presidente da dimenticare. Un incidente della storia. Il texano sbruffone e volgare, l’usurpatore che sostituì l’amatissimo John Kennedy dopo il suo assassinio. O una figura tragica: volle la disastrosa escalation in Vietnam che costò la vita a più di un milione di vietnamiti del Nord e del Sud e a 58 mila soldati americani, la grande maggioranza dei quali caduti nei cinque anni della sua presidenza.
Johnson stesso, consapevole che la condotta del conflitto nel Sudest asiatico aveva marchiato la sua era, cancellando la memoria delle cose positive fatte nel primo biennio, rinunciò a candidarsi per un secondo mandato alla Casa Bianca in un drammatico 1968 segnato dagli assassini di Martin Luther King e Robert Kennedy, oltre che dal più elevato numero di vittime in Vietnam: quasi 17 mila ragazzi americani morti in un solo anno. Lyndon se ne tornò in questo ranch verdissimo, attraversato da una pista lunga due chilometri sulla quale atterrava un piccolo quadrireattore Lockheed, uno dei primi jet per uomini d’affari, che faceva la spola tra il Texas e Washington e che Johnson aveva soprannominato «Air Force One e Mezzo». In fondo al nastro d’asfalto, sotto alberi secolari, la candida «Casa Bianca del Texas»: «Beato Truman — confessava — che mai si chiese se quello che aveva fatto fosse giusto, convinto di avere sempre scelto l’opzione migliore. Vorrei essere come lui, non voltarmi indietro. Invece mi consumo a ricostruire ogni atto, a chiedermi come sarebbero andate le cose se non avessi fatto questa o quella scelta».
Nella sua rozzezza, che scavò un solco psicologico e culturale tra lui e i due fratelli Kennedy (uno presidente, l’altro ministro della Giustizia) e con tutte le responsabilità per il Vietnam, quella di Johnson rimane, però, un’era straordinaria: la più produttiva del dopoguerra in termini di riforme e la più importante della storia americana per i diritti civili — la legge anti-segregazione che firmò nel 1964 sotto gli occhi di Martin Luther King — dopo quella di Lincoln, il presidente che abolì la schiavitù. Considerato dai più un «presidente per caso», tenuto inizialmente a distanza dagli attivisti neri che vedevano in lui un emissario delle compagnie petrolifere, dipinto dai primi cospirazionisti come il mandante dell’omicidio di JFK, Johnson fu in realtà efficacissimo, con le idee chiare fin dal primo giorno.
Figlio di una famiglia del Sud benestante ma non ricca, impegnato fin da giovane in politica, Johnson era stato deputato e poi senatore, diventando leader del suo partito al Congresso. Lì aveva gestito i gruppi parlamentari con i modi rudi di un cowboy che guida una mandria di bufali nelle praterie. Ma anche se i raffinati liberal della East Coast lo consideravano un notabile della vecchia politica, figura da ancien régime, Johnson allestì un vasto programma di riforme già all’indomani della morte di Kennedy e le realizzò tutte in due anni grazie a una straordinaria collaborazione bipartisan che nessuno riuscirà, dopo, a ricreare. Una cooperazione favorita dal clima di emergenza nell’America attonita e orfana del suo presidente, certo, ma Johnson la costruì meticolosamente grazie alla profonda conoscenza del mondo politico di Washington e alla capacità di mediare e anche di forzare la mano nei momenti chiave. Prese spesso decisioni coraggiose, sapendo che sarebbero costate care al suo partito e a lui come presidente. Seguace di Franklin Delano Roosevelt, ne ammirava il New Deal degli anni Trenta, ma era convinto che quel lavoro fosse stato lasciato a metà. Cercò di completarlo: dalla creazione di Medicare e Medicaid, la mutua statale per gli anziani e i poveri, tuttora l’unica area di sanità pubblica in America, alla cosiddetta «guerra alla povertà». Una stagione passata alla storia come quella della Great Society: una raffica di misure, comprese la riforma di scuole elementari e medie e i food stamp, l’assistenza alimentare per gli indigenti, elogiate dai progressisti e demonizzate dai conservatori, contrari all’allargamento della spesa pubblica e delle responsabilità dello Stato. Eppure tuttora queste riforme rappresentano la base del limitato welfare statunitense.
Joe Biden, l’ex vice di Barack Obama,