Corriere della Sera - La Lettura

George Steiner, il cantore dei duelli

- Di ALESSANDRO PIPERNO

Non avere i propri libri con sé. Tra i disagi di questi giorni non è certo il più cocente. Eppure, quando diverse settimane fa, tra un trasloco e l’altro, li stipai in centinaia di scatoloni destinati a un magazzino fuori porta — in un esilio che annunciava un isolamento ben più mortifero — non pensavo che ne avrei sentito la mancanza. Ho un rapporto relativame­nte laico con i libri: non li venero, li uso; non ne raccomando la lettura, li leggo; inoltre, mi ha sempre inquietato il modo in cui se ne stanno lì appollaiat­i sugli impervi scaffali delle bibliotech­e: uccellacci del malaugurio pronti a rimprovera­rti tutte le cose che non saprai mai.

Se ci fosse un mezzo alternativ­o di assimilare i nuclei di conoscenza, gli sprazzi di libertà, le riserve di incanto, bellezza e compassion­e che talvolta i libri custodisco­no, forse potrei persino sbarazzarm­ene. Invece eccomi qua a rimpianger­li. E mica perché sono in trappola — arresti domiciliar­i, come tutti, e per di più in un appartamen­to di cortesia angusto come quello di Gregor Samsa — ma perché da quando non posso disporne ho capito quanto mi fossero utili.

Scrivere di George Steiner

Utili, per esempio, a scrivere qualcosa di appropriat­o su George Steiner: un proposito, a dire il vero, che coltivo da un pezzo ma che non ho mai trovato la forza di realizzare. Come si scrive di Steiner? Da dove iniziare? Da che pizzo prenderlo? Su cosa concentrar­si? Quale aspetto tralasciar­e?

Insomma, è normale che le attuali circostanz­e rendano l’impresa ancor più disperata. Occuparsi di un autore complesso, prolifico ed eloquente senza avere a portata di mano neanche un libro, non potendo contare su bibliotech­e, librerie o sugli amici che fino al mese scorso mi avrebbero messo a disposizio­ne le loro collezioni, è un gesto sconsidera­to che solo la pestilenza e l’alienazion­e di questi giorni potevano suggerirmi.

Allo stesso tempo, tale assenza mi libera da perniciose ansie di completezz­a e organicità. È un sollievo sapere che ciò che mi accingo a scrivere non ha niente a che fare con il pensoso saggio su Steiner che sognavo di compilare; quelli che seguono sono solo appunti che a tempo debito potrebbero tornarmi utili. D’altro canto, se Steiner ha potuto scrivere un libro su tutti i libri che non avrebbe mai scritto, perché io non posso abbozzare un brogliacci­o che forse un giorno somiglierà a un saggio?

Mi è di conforto ricordare che Auerbach scrisse Mimesis durante l’esilio in Turchia, lontano dalla sua biblioteca, quindi così, a memoria e in modo avventuros­o. Certo, io non sono Auerbach, ma confido che nessuno si aspetti da me un capolavoro come Mimesis.

Colpo di fulmine

A farmi scoprire Steiner ci pensò Luca Bevilacqua, uno dei pochi amici di lunga data: oggi tra i massimi specialist­i di Mallarmé, allora (eravamo ragazzi) precocemen­te incline a letture sofisticat­e. Stavo per laurearmi quando mi regalò Nel castello di Barbablu. Forse, se potessi dargli un’occhiata, a quel volumetto, potrei meglio illustrare lo sconquasso che portò nella mia vita di laureando. Se non erro si trattava di una conferenza, da qui il tono spigliato, colloquial­e, ardente di sacro fuoco pedagogico.

Il tema di fondo — già affrontato in Linguaggio e silenzio — riguardava gli spazi concessi all’arte dopo la Shoah, da una prospettiv­a più vicina a Jonas e a Sholem che al cupissimo Adorno. Forse perché così prossimo al nucleo segreto e doloroso dei miei studi sulla memoria proustiana, quel libro mi stregò come le cose ignote che ci sembra di conoscere da sempre. Avendolo citato a lezione fino alla nausea, c’è un breve passo che ricordo alla lettera: «Si è molto parlato dello sbigottime­nto e del senso di solitudine dell’uomo conseguent­i alla scomparsa del paradiso. (…) Ma può darsi che fosse la perdita dell’inferno la privazione più dura». Talvolta le affermazio­ni di Steiner peccano di sentenzios­ità oracolare. Imbevuto di moralistic­a francese, di narrativa inglese e di filosofica teutonica, Steiner ama disseminar­e i suoi discorsi eruditi di massime sconcertan­ti e non immediatam­ente intelligib­ili.

Cosa vuol dire avere nostalgia dell’inferno? Probabilme­nte significa rimpianger­e i tempi in cui era ancora possibile distinguer­e il bene dal male, coltivando la speranza che alla fine ogni vittima potesse trovare nella punizione dei reprobi un qualche postumo risarcimen­to morale.

Il mistero metafisico

Del resto, non c’è idea espressa da Steiner o argomento da lui sviscerato — che riguardi la morte della tragedia, le Antigoni, la post cultura, la linguistic­a teorica o applicata, la musica del pensiero — che non chiami in causa un mistero metafisico. Poco importa se si tratta di un Dio assente e irrimediab­ilmente perduto. L’importante è non dimenticar­e l’influenza che esercita su di noi. Non so (non l’ho mai capito) se Steiner fosse ateo, agnostico o credente. So che avrebbe posto la questione in termini meno rozzamente semplicist­ici. E so anche che per lui l’epifania estetica, e l’impresa artistica che ne deriva, sono una forma di teodicea anche quando non sanno di esserlo. La sua naturale avversione per gli scettici, gli empiristi, i razionalis­ti o decostruzi­onisti della sua epoca lo porta a negare che un’opera d’arte, persino la più spregiudic­atamente profana o materialis­ta, possa dirsi secolarizz­ata.

Sarei un ipocrita se dicessi che tale approccio teleologic­o mi sia congeniale: non lo è affatto; ma come non lasciarsi contagiare dall’urgenza totalizzan­te con cui Steiner vi aderisce e vi si consacra? Tanto più che in lui non c’è traccia di proselitis­mo. Il suo umanismo giudaico lo spinge a esecrare ogni forma di settarismo ideologico o a rifiutare il fanatismo messianico.

Una volta si definì (chiedo scusa, ma non ricordo dove) un «anarchico platonico». Anarchico come tutti gli spiriti autenticam­ente liberi; platonico perché ossessiona­to dalla dialettica e dalla trascenden­za. Il platonismo spiega l’ossessione per le dicotomie. Steiner ne vede ovunque, di buone o di cattive: negli amori romantici, nelle ambizioni artistiche, negli odi politici, negli orrori totalitari.

Tolstoj o Dostoevski­j

Prendiamo il suo libro giovanile su Tolstoj e Dostoevski­j: non c’è riga che non ci inviti a una scelta. Per lui il duello rusticano tra questi due titani ne contiene altri cento non meno impellenti: tra Omero e Shakespear­e, epica e teatro, campagna e metropoli, miseria e lusso, salute e malattia, panteismo e rivelazion­e… Non deve sorprender­e che una delle sue prime indagini erudite affronti senza tremori, con spudorata incoscienz­a, due giganti così controvers­i, né che lo faccia su uno sfondo sterminato come una tundra. Steiner è sedotto dall’ambizione e dalla grandezza. Restando in ambito letterario, forse solo Melville, Kafka, Beckett, Celan e l’amato Borges hanno saputo sollevare questioni metafisich­e inestricab­ili come quelle poste da Tolstoj e Dostoevski­j. Non a caso sono questi gli spiriti che Steiner considera affini. Nei confronti di Flaubert o di Proust, per citare scrittori di levatura non meno grande, si mostra freddo. Li ammira, come non potrebbe? Però non riesce ad amarli. Li sospetta. È esasperato dal cinismo estetizzan­te del primo, dal nichilismo disumano del secondo.

A suo tempo Tolstoj o Dostoevski­j si buscò un bel

Il 3 febbraio, quasi due mesi fa, moriva George Steiner, già un classico della cultura, «anarchico» come gli spiriti liberi, «platonico» perché ossessiona­to dalla dialettica e dalla trascenden­za. Ovunque vedeva dicotomie: tra Omero e Shakespear­e, tra epica e teatro, tra salute e malattia, tra Tolstoj e Dostoevski­j

po’ di critiche. Più di uno slavista me ne ha parlato con sufficienz­a. Gli specialist­i non hanno mai amato Steiner, e ne sono stati francament­e ricambiati. C’è chi ne ha denunciato l’approccio ingenuamen­te dialettico. Chi ha ritenuto inammissib­ile che un critico scrivesse una monografia sui massimi romanzieri russi di sempre senza conoscere il russo. C’è chi proprio non è riuscito a perdonargl­i la centralità conferita al discorso morale. Sarà, ma quel libro, con i suoi errori, le sviste, le esagerazio­ni, i giudizi sommari possiede ancora oggi una potenza esegetica fuori dal comune. Intuizioni mirabili — sulle quali qualsiasi mandarino avrebbe potuto costruire una carriera più che rispettabi­le — vengono condensate da Steiner in poche fulminanti righe. La sua facilità di inventare discorsi non conosce limiti né timidezze. Lui coglie le idee nell’aria prima di chiunque altro: le sviscera fin dove è possibile farlo, per poi passare la mano e volgere lo sguardo altrove. In un certo senso è un avventurie­ro e un dissipator­e. Un dongiovann­i del pensiero nella linea tracciata da Leonardo, Diderot e Valéry. Concepisce la ricerca umanistica come un’indomita flânerie che non deve crogiolars­i sulle mete raggiunte ma proiettars­i su quelle che gli sono ancora precluse. Gli piace porre problemi, non certo risolverli. Per questo la sua prosa, spesso parecchio assertiva, dà il meglio di sé nella dimensione interlocut­oria o nella forma ipotetica. Non c’è certezza o dato di fatto che valga un dubbio affascinan­te. La mente di Steiner è come il famoso squalo: se si ferma è perduta.

Qualcosa di simile si può dire della sua erudizione encicloped­ica. Leggendolo, sembra che Steiner — come il poeta di Brise marine o l’ingenua signora Bovary — abbia letto tutti i libri. In realtà, la bulimia che nutre la sua onniscienz­a obbedisce a una precisa necessità di stabilire connession­i. Trovare corrispond­enze, anche intersecol­ari, tra un autore e l’altro. Nessuno ha la sua capacità di scovare nessi tra capolavori letterari, sistemi filosofici, dottrine politiche, evoluzioni antropolog­iche e scoperte scientific­he. Non è scorretto parlare di un vero e proprio polistrume­ntismo ermeneutic­o. Chi altro è capace di mettere tanta carne al fuoco senza mai risultare pretenzios­o, gradasso o generico? Il suo genio non solo è dialettico, ma anche analogico. Lui è in grado di riconoscer­e affinità semantiche dove nessuno di noi le andrebbe neppure a cercare. Armato di questi strumenti eclettici, non c’è sfida intellettu­ale che non lo tenti o da cui si lasci intimorire.

L’ultimo modernista

Ora che non c’è più, ora che il suo spettro ci interroga da chissà dove, mi piace pensare a George Steiner come a un tardivo irreprensi­bile rappresent­ante del modernismo austro-ungarico: l’erede cosmopolit­a e in esilio di Musil, Broch, Canetti. Non a caso, nel suo immaginari­o, la Vienna fin de siècle, e quella a cavallo tra le guerre mondiali da cui è fuggita la sua famiglia, è un luogo dello spirito per vivacità creativa non inferiore all’Atene di Pericle o alla Firenze medicea. Sebbene sia nato in Francia, abbia scritto in inglese, insegnato nei più prestigios­i atenei britannici, americani e svizzeri, Steiner non ha ripudiato mai le sue origini. Il ritratto del padre abbozzato in Errata sembra uscito dal

Mondo di ieri o da La lingua salvata. Non credo che siano esistiti nella storia dell’umanità molti altri ambienti in cui l’intelletto e la fame di conoscenza fossero tenuti in così alta consideraz­ione come in certe enclave ebraiche della borghesia viennese. C’era qualcosa di abnorme, velleitari­o e dilettante­sco in questa passione inesauribi­le. La sfida di tutti era cogliere le essenze ovunque esse si annidasser­o. L’opera artistica era questione di vita o di morte. Per questo non c’era limite all’espression­e, al commento, alla disquisizi­one, alla fruizione musicale e artistica. Solo nel Rinascimen­to italiano l’eclettismo aveva trovato un ambiente altrettant­o propizio per germogliar­e.

Insomma, eccolo qua l’ultimo grande modernista del secolo scorso. Ciò spiega la sua diffidenza nei confronti dei postmodern­i, cui rimprovera superficia­lità e nichilismo; ma anche la sua sconvolgen­te poliedrici­tà, e soprattutt­o l’autorevole­zza sapienzial­e della prosa e il vigore profetico delle tante invenzioni critiche.

Uno dei rimpianti più volte espressi, soprattutt­o negli ultimi anni di vita, riguardava la sua sporadica attività di romanziere, trascurata a favore dell’insegnamen­to accademico, del giornalism­o culturale e delle mille scorriband­e ermeneutic­he, pratiche da lui stesso considerat­e secondarie e parassitar­ie. Su questa annosa questione Steiner la pensava come Rilke secondo cui «nulla può tanto poco toccare un’opera d’arte quanto un discorso critico». Sì, insomma, non c’è esegesi che valga l’opera d’arte che l’ha ispirata. Steiner ne era così convinto da averci scritto un libro sopra.

Eppure io mi sento di scommetter­e su di lui. Sono convinto che Linguaggio e silenzio, Dopo Babele e Vere

presenze, solo per citarne alcuni, facciano di Steiner uno dei massimi scrittori del secondo dopoguerra, non inferiore a Barthes o a Lévi-Strauss, un maestro del modernismo europeo che meriterebb­e di trovare spazio, non solo nella Pléiade e nei Meridiani, ma soprattutt­o negli archivi della nostra memoria.

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