Corriere della Sera - La Lettura
George Steiner, il cantore dei duelli
Non avere i propri libri con sé. Tra i disagi di questi giorni non è certo il più cocente. Eppure, quando diverse settimane fa, tra un trasloco e l’altro, li stipai in centinaia di scatoloni destinati a un magazzino fuori porta — in un esilio che annunciava un isolamento ben più mortifero — non pensavo che ne avrei sentito la mancanza. Ho un rapporto relativamente laico con i libri: non li venero, li uso; non ne raccomando la lettura, li leggo; inoltre, mi ha sempre inquietato il modo in cui se ne stanno lì appollaiati sugli impervi scaffali delle biblioteche: uccellacci del malaugurio pronti a rimproverarti tutte le cose che non saprai mai.
Se ci fosse un mezzo alternativo di assimilare i nuclei di conoscenza, gli sprazzi di libertà, le riserve di incanto, bellezza e compassione che talvolta i libri custodiscono, forse potrei persino sbarazzarmene. Invece eccomi qua a rimpiangerli. E mica perché sono in trappola — arresti domiciliari, come tutti, e per di più in un appartamento di cortesia angusto come quello di Gregor Samsa — ma perché da quando non posso disporne ho capito quanto mi fossero utili.
Scrivere di George Steiner
Utili, per esempio, a scrivere qualcosa di appropriato su George Steiner: un proposito, a dire il vero, che coltivo da un pezzo ma che non ho mai trovato la forza di realizzare. Come si scrive di Steiner? Da dove iniziare? Da che pizzo prenderlo? Su cosa concentrarsi? Quale aspetto tralasciare?
Insomma, è normale che le attuali circostanze rendano l’impresa ancor più disperata. Occuparsi di un autore complesso, prolifico ed eloquente senza avere a portata di mano neanche un libro, non potendo contare su biblioteche, librerie o sugli amici che fino al mese scorso mi avrebbero messo a disposizione le loro collezioni, è un gesto sconsiderato che solo la pestilenza e l’alienazione di questi giorni potevano suggerirmi.
Allo stesso tempo, tale assenza mi libera da perniciose ansie di completezza e organicità. È un sollievo sapere che ciò che mi accingo a scrivere non ha niente a che fare con il pensoso saggio su Steiner che sognavo di compilare; quelli che seguono sono solo appunti che a tempo debito potrebbero tornarmi utili. D’altro canto, se Steiner ha potuto scrivere un libro su tutti i libri che non avrebbe mai scritto, perché io non posso abbozzare un brogliaccio che forse un giorno somiglierà a un saggio?
Mi è di conforto ricordare che Auerbach scrisse Mimesis durante l’esilio in Turchia, lontano dalla sua biblioteca, quindi così, a memoria e in modo avventuroso. Certo, io non sono Auerbach, ma confido che nessuno si aspetti da me un capolavoro come Mimesis.
Colpo di fulmine
A farmi scoprire Steiner ci pensò Luca Bevilacqua, uno dei pochi amici di lunga data: oggi tra i massimi specialisti di Mallarmé, allora (eravamo ragazzi) precocemente incline a letture sofisticate. Stavo per laurearmi quando mi regalò Nel castello di Barbablu. Forse, se potessi dargli un’occhiata, a quel volumetto, potrei meglio illustrare lo sconquasso che portò nella mia vita di laureando. Se non erro si trattava di una conferenza, da qui il tono spigliato, colloquiale, ardente di sacro fuoco pedagogico.
Il tema di fondo — già affrontato in Linguaggio e silenzio — riguardava gli spazi concessi all’arte dopo la Shoah, da una prospettiva più vicina a Jonas e a Sholem che al cupissimo Adorno. Forse perché così prossimo al nucleo segreto e doloroso dei miei studi sulla memoria proustiana, quel libro mi stregò come le cose ignote che ci sembra di conoscere da sempre. Avendolo citato a lezione fino alla nausea, c’è un breve passo che ricordo alla lettera: «Si è molto parlato dello sbigottimento e del senso di solitudine dell’uomo conseguenti alla scomparsa del paradiso. (…) Ma può darsi che fosse la perdita dell’inferno la privazione più dura». Talvolta le affermazioni di Steiner peccano di sentenziosità oracolare. Imbevuto di moralistica francese, di narrativa inglese e di filosofica teutonica, Steiner ama disseminare i suoi discorsi eruditi di massime sconcertanti e non immediatamente intelligibili.
Cosa vuol dire avere nostalgia dell’inferno? Probabilmente significa rimpiangere i tempi in cui era ancora possibile distinguere il bene dal male, coltivando la speranza che alla fine ogni vittima potesse trovare nella punizione dei reprobi un qualche postumo risarcimento morale.
Il mistero metafisico
Del resto, non c’è idea espressa da Steiner o argomento da lui sviscerato — che riguardi la morte della tragedia, le Antigoni, la post cultura, la linguistica teorica o applicata, la musica del pensiero — che non chiami in causa un mistero metafisico. Poco importa se si tratta di un Dio assente e irrimediabilmente perduto. L’importante è non dimenticare l’influenza che esercita su di noi. Non so (non l’ho mai capito) se Steiner fosse ateo, agnostico o credente. So che avrebbe posto la questione in termini meno rozzamente semplicistici. E so anche che per lui l’epifania estetica, e l’impresa artistica che ne deriva, sono una forma di teodicea anche quando non sanno di esserlo. La sua naturale avversione per gli scettici, gli empiristi, i razionalisti o decostruzionisti della sua epoca lo porta a negare che un’opera d’arte, persino la più spregiudicatamente profana o materialista, possa dirsi secolarizzata.
Sarei un ipocrita se dicessi che tale approccio teleologico mi sia congeniale: non lo è affatto; ma come non lasciarsi contagiare dall’urgenza totalizzante con cui Steiner vi aderisce e vi si consacra? Tanto più che in lui non c’è traccia di proselitismo. Il suo umanismo giudaico lo spinge a esecrare ogni forma di settarismo ideologico o a rifiutare il fanatismo messianico.
Una volta si definì (chiedo scusa, ma non ricordo dove) un «anarchico platonico». Anarchico come tutti gli spiriti autenticamente liberi; platonico perché ossessionato dalla dialettica e dalla trascendenza. Il platonismo spiega l’ossessione per le dicotomie. Steiner ne vede ovunque, di buone o di cattive: negli amori romantici, nelle ambizioni artistiche, negli odi politici, negli orrori totalitari.
Tolstoj o Dostoevskij
Prendiamo il suo libro giovanile su Tolstoj e Dostoevskij: non c’è riga che non ci inviti a una scelta. Per lui il duello rusticano tra questi due titani ne contiene altri cento non meno impellenti: tra Omero e Shakespeare, epica e teatro, campagna e metropoli, miseria e lusso, salute e malattia, panteismo e rivelazione… Non deve sorprendere che una delle sue prime indagini erudite affronti senza tremori, con spudorata incoscienza, due giganti così controversi, né che lo faccia su uno sfondo sterminato come una tundra. Steiner è sedotto dall’ambizione e dalla grandezza. Restando in ambito letterario, forse solo Melville, Kafka, Beckett, Celan e l’amato Borges hanno saputo sollevare questioni metafisiche inestricabili come quelle poste da Tolstoj e Dostoevskij. Non a caso sono questi gli spiriti che Steiner considera affini. Nei confronti di Flaubert o di Proust, per citare scrittori di levatura non meno grande, si mostra freddo. Li ammira, come non potrebbe? Però non riesce ad amarli. Li sospetta. È esasperato dal cinismo estetizzante del primo, dal nichilismo disumano del secondo.
A suo tempo Tolstoj o Dostoevskij si buscò un bel
Il 3 febbraio, quasi due mesi fa, moriva George Steiner, già un classico della cultura, «anarchico» come gli spiriti liberi, «platonico» perché ossessionato dalla dialettica e dalla trascendenza. Ovunque vedeva dicotomie: tra Omero e Shakespeare, tra epica e teatro, tra salute e malattia, tra Tolstoj e Dostoevskij
po’ di critiche. Più di uno slavista me ne ha parlato con sufficienza. Gli specialisti non hanno mai amato Steiner, e ne sono stati francamente ricambiati. C’è chi ne ha denunciato l’approccio ingenuamente dialettico. Chi ha ritenuto inammissibile che un critico scrivesse una monografia sui massimi romanzieri russi di sempre senza conoscere il russo. C’è chi proprio non è riuscito a perdonargli la centralità conferita al discorso morale. Sarà, ma quel libro, con i suoi errori, le sviste, le esagerazioni, i giudizi sommari possiede ancora oggi una potenza esegetica fuori dal comune. Intuizioni mirabili — sulle quali qualsiasi mandarino avrebbe potuto costruire una carriera più che rispettabile — vengono condensate da Steiner in poche fulminanti righe. La sua facilità di inventare discorsi non conosce limiti né timidezze. Lui coglie le idee nell’aria prima di chiunque altro: le sviscera fin dove è possibile farlo, per poi passare la mano e volgere lo sguardo altrove. In un certo senso è un avventuriero e un dissipatore. Un dongiovanni del pensiero nella linea tracciata da Leonardo, Diderot e Valéry. Concepisce la ricerca umanistica come un’indomita flânerie che non deve crogiolarsi sulle mete raggiunte ma proiettarsi su quelle che gli sono ancora precluse. Gli piace porre problemi, non certo risolverli. Per questo la sua prosa, spesso parecchio assertiva, dà il meglio di sé nella dimensione interlocutoria o nella forma ipotetica. Non c’è certezza o dato di fatto che valga un dubbio affascinante. La mente di Steiner è come il famoso squalo: se si ferma è perduta.
Qualcosa di simile si può dire della sua erudizione enciclopedica. Leggendolo, sembra che Steiner — come il poeta di Brise marine o l’ingenua signora Bovary — abbia letto tutti i libri. In realtà, la bulimia che nutre la sua onniscienza obbedisce a una precisa necessità di stabilire connessioni. Trovare corrispondenze, anche intersecolari, tra un autore e l’altro. Nessuno ha la sua capacità di scovare nessi tra capolavori letterari, sistemi filosofici, dottrine politiche, evoluzioni antropologiche e scoperte scientifiche. Non è scorretto parlare di un vero e proprio polistrumentismo ermeneutico. Chi altro è capace di mettere tanta carne al fuoco senza mai risultare pretenzioso, gradasso o generico? Il suo genio non solo è dialettico, ma anche analogico. Lui è in grado di riconoscere affinità semantiche dove nessuno di noi le andrebbe neppure a cercare. Armato di questi strumenti eclettici, non c’è sfida intellettuale che non lo tenti o da cui si lasci intimorire.
L’ultimo modernista
Ora che non c’è più, ora che il suo spettro ci interroga da chissà dove, mi piace pensare a George Steiner come a un tardivo irreprensibile rappresentante del modernismo austro-ungarico: l’erede cosmopolita e in esilio di Musil, Broch, Canetti. Non a caso, nel suo immaginario, la Vienna fin de siècle, e quella a cavallo tra le guerre mondiali da cui è fuggita la sua famiglia, è un luogo dello spirito per vivacità creativa non inferiore all’Atene di Pericle o alla Firenze medicea. Sebbene sia nato in Francia, abbia scritto in inglese, insegnato nei più prestigiosi atenei britannici, americani e svizzeri, Steiner non ha ripudiato mai le sue origini. Il ritratto del padre abbozzato in Errata sembra uscito dal
Mondo di ieri o da La lingua salvata. Non credo che siano esistiti nella storia dell’umanità molti altri ambienti in cui l’intelletto e la fame di conoscenza fossero tenuti in così alta considerazione come in certe enclave ebraiche della borghesia viennese. C’era qualcosa di abnorme, velleitario e dilettantesco in questa passione inesauribile. La sfida di tutti era cogliere le essenze ovunque esse si annidassero. L’opera artistica era questione di vita o di morte. Per questo non c’era limite all’espressione, al commento, alla disquisizione, alla fruizione musicale e artistica. Solo nel Rinascimento italiano l’eclettismo aveva trovato un ambiente altrettanto propizio per germogliare.
Insomma, eccolo qua l’ultimo grande modernista del secolo scorso. Ciò spiega la sua diffidenza nei confronti dei postmoderni, cui rimprovera superficialità e nichilismo; ma anche la sua sconvolgente poliedricità, e soprattutto l’autorevolezza sapienziale della prosa e il vigore profetico delle tante invenzioni critiche.
Uno dei rimpianti più volte espressi, soprattutto negli ultimi anni di vita, riguardava la sua sporadica attività di romanziere, trascurata a favore dell’insegnamento accademico, del giornalismo culturale e delle mille scorribande ermeneutiche, pratiche da lui stesso considerate secondarie e parassitarie. Su questa annosa questione Steiner la pensava come Rilke secondo cui «nulla può tanto poco toccare un’opera d’arte quanto un discorso critico». Sì, insomma, non c’è esegesi che valga l’opera d’arte che l’ha ispirata. Steiner ne era così convinto da averci scritto un libro sopra.
Eppure io mi sento di scommettere su di lui. Sono convinto che Linguaggio e silenzio, Dopo Babele e Vere
presenze, solo per citarne alcuni, facciano di Steiner uno dei massimi scrittori del secondo dopoguerra, non inferiore a Barthes o a Lévi-Strauss, un maestro del modernismo europeo che meriterebbe di trovare spazio, non solo nella Pléiade e nei Meridiani, ma soprattutto negli archivi della nostra memoria.