Corriere della Sera - La Lettura

Il Grandissim­o Fratello

Mai come oggi tv generalist­a e internet si combinano e scombinano: è la domesticaz­ione del web. Così nascono i generi della quaran tena social: musica, fitness, cucina, chat di mamme e chat di studenti E ora che siamo tutti reclusi, la Casa del GF abita

- Di ALDO GRASSO

Per capire in che television­e siamo immersi, necessitat­e co

gente, forse avrei dovuto prestare più attenzione a due programmi epocali come il Festival di Sanremo e il Grande Fratello.

Quest’anno Sanremo, il programma simbolo della tradizione Rai, il regno del generalism­o, si è trasformat­o nel più incredibil­e successo social. Nell’epoca del narcisismo diffuso, ciascuno di noi si trasforma in medium per acchiappar­e like, menzioni e retweet da giocare nel grande mare aperto della rete. Post dopo post, il colto e l’inclita, tutti si sono sentiti parte di un rituale collettivo che rimanda al fascino di quelle grandi tradizioni che cambiano rimanendo sempre uguali a sé stesse. Grazie a Sanremo avrei capito perché ora i social prosperano, debordando anche in tante piccole performanc­e dal vivo: video sui balconi, piccoli show con le nostre celebrity su Instagram, collegamen­ti in streaming, la tv che funziona come una lunga videoconfe­renza. Mai come ora tv generalist­a e internet si combinano e scombinano senza più barriere.

Le nuove tecnologie sono mezzi individual­i, che non richiedono le classiche strutture dell’industria tv. È un ambiente dove ci si arrangia. Nascono i generi della quarantena social: la cucina va per la maggiore, insieme al fitness, alla musica, ai consigli delle chat delle mamme per superare l’ansia. C’è chi ha organizzat­o un vero palinsesto quotidiano di dirette social con i vari influencer chiamati all’azione («Jova House Party», «Il balconcino di Fedez», «Samuel e Boosta» dei Subsonica. Così come altrove i grandi

stand-up comedian trasmetton­o da casa loro e le rockstar intonano concerti dal salotto). In questa specie di flusso di coscienza collettivo si mischiano ammirevoli iniziative di beneficien­za, occasioni di visibilità, forme di autopromoz­ione. I confini sono sfumati, non potrebbe essere altrimenti. La tv ribadisce di essere ancora il medium egemone, ma intanto ingloba elementi, contenuti e tecnologie web con t ut t i quei col l e gamenti v i a Skype dove bisogna aggiungere il telefonino per l’audio. Dobbiamo cominciare a parlare di domesticaz­ione di internet?

Ma è il Grande Fratello che, dopo vent’anni di onesti esibizioni­smi, ha rovesciato completame­nte le carte. Mentre la Casa del Grande Fratello sembra il posto più sicuro d’Italia (e beffardame­nte mi ha rassicurat­o che i Zequila sono molti di più di quanto avremmo immaginato, che il governo è anche guidato da Rocco Casalino del GF1, che i leopardi fanno parte della cerimonia, secondo la visionarie­tà di Kafka), quasi tutte le Case degli italiani ripetono le dinamiche del Grande Fratello. Siamo tutti reclusi. Per alcuni mesi, speriamo non molti, ognuno di noi — specie quelli che irridevano la trasmissio­ne — sperimenta­no le dinamiche di gruppo all’interno di un luogo chiuso, l’universo casalingo rigidament­e delimitato dai metri quadri e dalla convivenza, riscoprono pratiche di prima necessità (lavare i pavimenti, spolverare…), si aggr a ppano per s i no a gl i a uspi c i del l a Grande Fratellanz­a: uscire sui balconi a cantare, a partecipar­e a un flash mob, a darsi coraggio, a cantare tutti insieme l’inno di Mameli o Azzurro. Anche in questa chiave va interpreta­to il boom di ascolti che il 19 marzo, San Giuseppe, ha ottenuto il Rosario del Papa su Tv2000, con oltre 4 milioni di spettatori. La potenza del rito liturgico con le chiese chiuse, la forza di una comunità sincronizz­ata e la paura del peggio esprimono ancora un indicibile messaggio di partecipaz­ione.

Negli anni, ho imparato che i protagonis­ti del GF recitano (perché sono spiati da 60 telecamere, perché seguono le regole di un gioco, perché vivono esposti dentro un set televisivo) ma so anche che recitano in senso pirandelli­ano, interpreta­no cioè le parti di un’esistenza costrittiv­a dove l’attività principale è confessars­i. Nella «vera» casa del GF non c’è molto da fare: l’attività principale è parlarsi addosso. Lo spettatore, da tempo deprivato di esperienze estetiche, non guarda più la tv per giudicare la bontà o meno di uno spettacolo, ma per giudicare il simulacro di vita che lì vi scorre.

E il simulacro è debordato nelle nostre case, all’improvviso, senza chiedere permesso. La Casa sono le Case di tutti noi, il confession­ale del GF è il web, sono i social, è la grande audience della rete (Sanremo più GF). E a vincere è ancora lo psicologis­mo, quell’impunità di gregge che fatalmente impoverisc­e ciò di cui parla.

Già, ma cosa c’è da guardare in tv? Subito ho sperato nella catarsi, nel Grande Riscatto della tv, mi sono persino illuso che la Rai potesse passare alla Storia. Quando è scoppiata l’emergenza del coronaviru­s, quando è cominciata la penosa conta dei morti, quando scuole e uffici sono stati chiusi, ebbene quello era il momento di prendere una grande e pratica decisione: trasformar­e Rai1 nella rete

di servizio nazionale. Decisione non facile e non priva di rischi, ma decisione coraggiosa che sicurament­e avrebbe dato i suoi frutti. Come la radio li diede nel 1951 durante l’alluvione del Polesine e come fece la tv nel 1968, dopo il terremoto nel Belice, coordinand­o i servizi di soccorso.

Il canale più visto dagli italiani al servizio degli italiani: per dare notizie controllat­e nel modo più controllat­o possibile, per fornire alla Protezione civile un mezzo di comunicazi­one immediato, per cancellare tutti quei programmi che fino a ieri si occupavano di gossip e che oggi vorrebbero gestire, con inadeguate­zza, gli stati d’animo del Paese, per organizzar­e il pomeriggio (in accordo con le altre reti Rai, soprattutt­o con Rai Storia) le lezioni per studenti delle elementari e delle medie.

Sarò pure un illuso nell’assegnare alla tv ruoli guida, ma da spettatore profession­ista non ho mai visto in tanti anni una simile fragilità, un simile sbandament­o dei palinsesti: cambiament­i in corsa, soppressio­ni, aggiustame­nti, azzardi. Senza una precisa linea editoriale, senza la forza di ribadire quell’egemonia mediale che i grandi eventi ancora conferisco­no alla tv.

Nella quarantena (chissà quanto durerà) funzionere­bbe ancora Portobello di Enzo Tortora con i suoi baratti, i suoi scambi, la sue economie del ritrovamen­to (persone e cose), proprio ora che la «gente comune» (cioè tutti noi, indistinta­mente) sale alla ribalta del web per darsi una nuova autorappre­sentazione: esaurito da tempo il compito di raffiguraz­ione e costruzion­e di un’identità nazionale, si scopre che esiste un’identità casalinga ben diversa da quella raccontata dai programmi del day time: il virus cerca di trasformar­e la casalinghi­tudine in uno show divertente, finché l’adrenalina ci sorregge.

I l coronaviru­s c i ha f a t to s copri re quanto noi siamo nelle mani dei talk show, il genere più fatale oggi in circolazio­ne perché ha inevitabil­mente trasformat­o l’opinione («Il problema non è di comunicare una opinione ma di averla», diceva Giuseppe Pontiggia) in chiacchier­a da bar.

La tv si è creata un formidabil­e meccanismo di autoassolu­zione, soprattutt­o attraverso i talk, il regno degli opinionist­i. I quali non si rifanno mai a un criterio solido, unico (in queste circostanz­e verrebbe da dire «scientific­o», se l’aggettivo non fosse troppo impegnativ­o), iscritto nelle nostre coscienze. No. Condannano, assolvono, disapprova­no, perdonano a seconda delle circostanz­e. Sono moralizzat­ori (non moralisti) assoldati dalla tv per giustifica­re tutto quello che si fa in tv, a volte fingendo persino di essere in disaccordo. Questo slavato opinionism­o ha il solo compito di tenere desta la lagna e l’indignazio­ne.

Il talk ha umiliato persino i virologi, gli epidemiolo­gi, gli infettivol­ogi, insomma i medici di cui in questo momento abbiamo più bisogno, ma che passano troppo tempo in tv. Li ha messi l’uno contro l’altro, ha solleticat­o il loro narcisismo, ha provocato scontri verbali, sopravvalu­tazioni del fenomeno, sottovalut­azioni del medesimo, lunghissim­i dibattiti, una sorta di pandemia di presenzial­ismo. Ogni situazione fuori del comune genera indotto mediatico. Perché succede questo? Da anni, Alberto Arbasino sosteneva che gli italiani sono formidabil­i attori (meglio nella vita che in palcosceni­co) e la compagnia di giro dei talk — sempre gli stessi, sempre i medesimi comportame­nti — è la vera erede della commedia all’italiana (dopo la grande stagione ci

nematograf­ica). Anche i conduttori tendono alla commedia (urlano, gridano, si esaltano), non rendendosi conto che virano alla tragedia (unica nota positiva: senza pubblico, i talk paiono più asciutti e funzionali. Ricordarse­lo).

Il talk ha messo in secondo piano persino il ruolo dei telegiorna­li, un tempo fonte principale dell’informazio­ne. A onore del vero sono i tg (a parte Tg La7 e Sky Tg24) che si sono messi in secondo piano, non essendo riusciti a fare quel salto di qualità che la situazione richiedeva. Un solo esempio, quello che più mi fa imbestiali­re: se il governo prende una decisione per uscire dall’emergenza, è proprio necessario sentire le opinioni di tutti i leader politici secondo i rituali della lottizzazi­one e della polemica politica? Nell’informazio­ne televisiva c’è una perdita di autorevole­zza che sarà difficile recuperare anche in tempi normali. Come se il genere fosse stato annichilit­o dalle dirette pomeridian­e della Protezione civile, quando la faccia triste del commissari­o Angelo Borrelli legge il bollettino di guerra.

E poi i lettori mi scrivono: «Non se ne può più dei collegamen­ti inutili della Cuccarini a casa dei vip in quarantena... “cos’hai cucinato oggi? come hai ordinato la stanza da letto? aiuti la tua compagna nei lavori domestici?” e via di questo passo...»; «Ma Sky perché continua a mandare in onda film angosciant­i, come se di angoscia non ne avessimo già abbastanza»; «Galli, tra i virologi dei vari collegamen­ti, è quello con la più grande energia nel “lasciate ogni speranza voi che udite”»; «Tutte le interviste connesse al problema coronaviru­s che sono effettuate da casa — a professori, dottori, politici, filosofi, giornalist­i, attori... e così via — “avvengono” con una libreria alle spalle. Ho anche notato che le suddette librerie sono praticamen­te tutte uguali, “cubi” bianchi di varia misura. È la mod a o l e “f a ” l o s t e s s o f a l e g n a me? » ; «Questi collegamen­ti gracchiant­i, dove tutto va e tutto viene, perfetta rappresent­azione della allegoria platonica della caverna... O della “décadence” nicciana della civiltà... (Poi, certo, arriva Fabio Fazio che ti spiega tutto, ripreso persino dal Papa. E Fabio Fazio riprende il Papa che ha ripreso Fabio Fazio, così, ad libitum...)»...

Ma cosa chiediamo alla tv in momenti come questi? Che faccia meno errori di comunicazi­one e non contribuis­ca anche lei alla creazione di un insopporta­bile clima ansiogeno? Che ritorni a essere una «finestra sul mondo», dovendo vivere chiusi dentro le pareti di una stanza? Che ci aiuti a capire quali sono le cose essenziali, una volta tornata la normalità? Come sempre da quasi settant’anni a questa parte, alla tv chiediamo tutto e il contrario di tutto, sempre però con una punta di scontentez­za, come se la tv fosse ancora la vita che non viviamo.

Il tempo che stiamo attraversa­ndo non ha precedenti nella storia recente e ci sta costringen­do a fare i conti con esperienze del tutto inedite, come individui e come 0società. La tv non fa eccezione e le

varie fasi dell’emergenza vissute finora hanno costretto gli editori a ridefinire i loro piani d’azione, mentre le misure restrittiv­e si facevano via via più stringenti: prima la rinuncia al pubblico negli studi, poi le redazioni messe in quarantena e infine la decisione di sospendere del tutto alcuni programmi in onda per tutelare la sicurezza collettiva. La crisi Covid-19 ha fatto emergere con forza un fatto che si tende a dimenticar­e: la tv è (anche) un’industria, con un largo numero di occupati nelle reti e in tutto l’indotto. L’impatto non sarà, probabilme­nte, solo sulle settimane del lockdown, ma lo s’immagina più a lungo termine, sull’offerta della prossima stagione.

Grazie ai generi più «a portata di mano» (contenitor­i pomeridian­i, talk show, reality), negli ultimi decenni, molta parte della nostra vita sociale si è svolta con l’apporto attivo della tv. Una volta era più facile distinguer­e fra realtà e rappresent­azione, ma da tempo i media, vecchi e nuovi, costituisc­ono i nostri nuovi ambienti di socializza­zione, «luoghi» frequentat­i da noi giorno per giorno e in cui impariamo a comportarc­i, a ripetere frasi sentite, a imitare modelli di comportame­nto. Se una volta, oltre alla famiglia, esistevano alcune istituzion­i che servivano come palestra formativa (la scuola, l’oratorio, il circolo, il servizio militare...), da parecchi anni la tv si è mangiata questi «luoghi della memoria condivisa» e ha cominciato a sbriciolar­e il confine con la realtà. Si chiama esperienza mediale e significa che i media costituisc­ono forme di esperienza viva e complessa: non solo cognitiva, ma anche emotiva, pratica, relazional­e. Se la realtà è percepita soprattutt­o attraverso i media, alla fine vale anche il contrario: la realtà tenderà a organizzar­si attraverso format, regole mediali. L’esperienza del reale viene sempre più sottoposta a un processo di elaborazio­ne, messo in atto da realtà virtuali, che finisce per mutare il nostro modo di percepire le cose: persino l’angoscia del virus.

E tuttavia, per la consueta ironia della Storia, la saldatura fra vita e rappresent­azione, tra quotidiani­tà minacciosa e tv non è avvenuta attraverso i programmi che esaltano la «gente comune». No, è avvenuta attraverso dosi consistent­i di serialità distopica. Il coronaviru­s discende direttamen­te da un mondo immaginari­o alla rovescia, dove tutto va male. Il coronaviru­s era già presente nelle serie, da The Walking Dead a Black Mirror, da

The Handmaid’s Tale a Westworld, da Minority Report a Les Revenants e in molte altre ancora. Molta fiction sembra fabbricata al solo scopo di intristirc­i, di caricarci di angosce, di premonirci. O forse siamo noi che non abbiamo capito, non siamo stati in grado di decifrare. Perché la serialità distopica non è solo un esercizio anticipato­rio. Più la scrittura è alta, più svela quello che sta davanti agli occhi.

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FRANCESCA CAPELLINI
ILLUSTRAZI­ONE DI FRANCESCA CAPELLINI
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