Corriere della Sera - La Lettura
Il «modello italiano» nella lotta alla peste
Nell’estate del 1575, un viaggiatore proveniente dal Trentino portò a Venezia la peste. Quando morì, poco dopo l’ arrivo in città, e dopo avere soggiornato in casa di conoscenti, i suoi beni e gli indumenti furono venduti per pagare le spese del funerale, contribuendo così alla diffusione del contagio. Fu forse lui il« paziente zero» che fece esplodere in Laguna (e poi in Italia) la più grave epidemia dopo la Peste nera del Trecento.
Il contagio che nel periodo 1575-1577 colpì soprattutto le città della Lombardia e del Veneto ebbe effetti gravissimi, con tassi di mortalità impressionanti e comparabili alla peste manzoniana del 1630. I morti furono quasi 18 mila a Milano, circa 20 mila a Brescia (quasi metà della popolazione), oltre 45 mila a Venezia (su circa 170 mila abitanti).
Tutto si ferma
Con l’incedere del contagio, alcune delle più dinamiche città d’Europa si arrestano completamente. A Venezia, nel tentativo di arginare l’epidemia, feste, banchetti e spettacoli pubblici sono proibiti, ma anche gli assembramenti non necessari, la frequentazione di piazze, chiese e mercati. Locande e taverne, rimaste fino all’ultimo affollate, sono costrette alla chiusura. Anche il Carnevale viene cancellato, così come le cerimonie religiose, tra cui esequie e matrimoni.
Nel 1576, nella speranza di isolare i focolai del contagio, i sestieri di Castello, Cannaregio e San Marco divengono zona protetta e gli abitanti sono posti in quarantena nelle loro case. Mentre patrizi e ricchi mercanti abbandonano la città per trasferirsi nelle dimore in campagna, i poveri sono costretti a rimanere rinchiusi in abitazioni malsane e sovraffollate.
Il traffico incessante della Laguna, fatto di navi e traghetti che collegano la città con il resto del mondo, si blocca. La grande metropoli cosmopolita rinascimentale, vibrante centro internazionale del commercio e del transito, si ritrova improvvisamente immobile, isolata e deserta. Il silenzio spettrale che l’avvolge colpisce l’immaginazione del notaio Rocco Benedetti, che vaga per le calli veneziane per vergare i testamenti dei moribondi, «quasi trasognato di andar smarito nel mezzo del silenzio della notte per luoghi ermi e selvaggi».
Un esempio valido
I fattori che avevano reso Venezia e altre città dell’Italia settentrionale tra le più prospere e creative comunità del Rinascimento — il movimento delle persone e con esse di beni, denaro, idee, innovazioni — erano gli stessi che le resero particolarmente vulnerabili alla diffusione delle epidemie. Sin dal ritorno della malattia in Europa, nel XIV secolo, la posizione dell’Italia come snodo del commercio e delle rotte dei viaggiatori l’aveva esposta ripetutamente ai contagi. A fronte di questo pericolo ricorrente, gli Stati italiani avevano maturato una lunga esperienza nella gestione delle emergenze epidemiche, tanto da essere considerati un modello per l’Europa e il Mediterraneo.
Sanità pubblica ed emergenza
Nel Cinquecento i sistemi di sanità pubblica in Italia avevano raggiunto la loro piena efficienza e articolazione organizzativa. Venezia e Milano erano all’avanguardia, avendo sviluppato consolidati protocolli d’intervento e strumenti per erigere barriere in tempi di contagio.
In particolare, a partire dalla seconda metà del XIV secolo, furono introdotte rigorose misure di controllo della mobilità: chiusure di porti e frontiere, restrizioni nell’accesso, provvedimenti di quarantena e bandi rivolti a singole comunità (città o Stati) o categorie di individui (forestieri, vagabondi e pellegrini).
Nel 1423, a Venezia fu instituito il primo ospedale permanente per la peste al mondo, il Lazzaretto Vecchio, su un’isola nei pressi del Lido. Il modello del Lazzaretto fu adottato in diversi centri dell’Italia settentrionale tra Quattrocento e Cinquecento — a Padova, Vicenza, Brescia, Bergamo, oltre all’imponente edificio eretto a Milano — e poi nel resto d’Europa a partire dal Seicento.
Non meno innovativa fu la creazione di magistrature permanenti dedicate alla gestione della sanità pubblica. L’ufficio del Magistrato di sanità a Milano o i Provveditori alla sanità, attivi a Venezia dal 1490, avevano compiti di controllo dell’igiene pubblica, di prevenzione e di coordinamento nella gestione delle emergenze epidemiche. Invenzione italiana furono anche le Fedi di sanità, certificati che permettevano la circolazione di individui garantendone la provenienza da luoghi non infetti e consentendo la prosecuzione di traffici e commerci. Inizialmente manoscritti e poi stampati su
Venezia e Milano nel Rinascimento erano vulnerabili
al contagio per via degli scambi commerciali molto intensi. Perciò misero a punto un sistema di restrizioni e quarantene,
nominarono magistrati addetti al controllo della pubblica igiene, allestirono servizi di raccolta delle informazioni per prevenire i rischi. Non sempre queste misure funzionarono bene e l’epidemia del 1575-1577 fu devastante, ma l’impatto del disastro venne contenuto e si sviluppò anche un coordinamento tra i diversi Stati della penisola
fogli di piccolo formato, questi documenti furono tra le prime forme di identificazione utilizzate per regolare la mobilità, precursori di passaporti e carte d’identità.
Media e false notizie
Gli Stati italiani del Rinascimento erano in prima linea anche in un’altra battaglia: il controllo della comunicazione circa il diffondersi delle epidemie. Combattere la trasmissione della peste significava anche raccogliere informazioni sui possibili focolai, avvalersi di spie, distinguere il falso dal vero. Era inoltre necessario gestire l’informazione pubblica, talvolta manipolare le notizie, minimizzando la portata del contagio nei propri territori per non danneggiare l’economia.
Tra i maggiori centri editoriali d’Europa, le città italiane fecero ampio uso del nuovo mezzo di comunicazione tipografico per interagire con i sudditi in tempi di emergenza. Bandi a stampa, affissi sui muri e letti ad alta voce nelle strade, comunicavano agli abitanti i decreti del governo per contenere l’epidemia e sanzionare comportamenti inadeguati. Nelle ordinanze pubblicate dalle magistrature sanitarie milanesi nel 1576, ad esempio, donne e bambini erano invitati a rispettare le regole della quarantena, a rimanere in casa e non andare «vagando per la città, e nelle case altrui immischiandosi insieme l’uno con l’altro».
Le autorità cercarono di ridimensionare la circolazione di false notizie e l’offerta di rimedi miracolosi. All’apice del contagio, medici improvvisati pubblicizzavano cure improbabili. Antonio Gualtiero, fiammingo, si offrì di liberare Venezia dal morbo in 8 giorni, con una ricetta che prescriveva di bere la propria urina al mattino e applicare dello sterco sui bubboni. Vi era il timore che qualcuno approfittasse della devozione e delle paure del popolo. Così, nel novembre del 1575, l’Inquisizione veneziana fece arrestare alcuni venditori ambulanti che in piazza San Marco e a Rialto vendevano fogli a stampa che promettevano di rivelare «quel gran secreto da esser sicuro à tempo di Peste»: una preghiera a Cristo e alla Vergine da recitare ogni mattina.
Ma l’appetito di un pubblico avido di notizie (e di speranza) era difficilmente saziabile. Ed è proprio durante l’epidemia che si diffonde un nuovo genere editoriale di largo consumo, bollettini di poche carte monitoravano il diffondersi del contagio, speculavano sui possibili responsabili, tenevano il conto dei morti. Sebbene la peste del 1575-1577 non
abbia un Boccaccio o un Manzoni a celebrarne la memoria, l’impressione collettiva generata dall’evento calamitoso rimase fissata nelle centinaia di opuscoli che registrarono paure, speranze, delusioni.
Punti deboli del sistema
Pur nella sua modernità, il sistema di gestione delle emergenze messo in atto dagli Stati italiani era tutt’altro che perfetto. Le magistrature sanitarie erano indebolite da vizi endemici della burocrazia nella prima modernità: corruzione, mancanza di fondi e inefficienze. Nonostante la rinomata efficacia del sistema spionistico di Venezia, ad esempio, informazioni cruciali per circoscrivere la diffusione del morbo potevano sfuggire. Fu così che nell’estate 1575 la Serenissima bandì tutti i viaggiatori provenienti dal Trentino con settimane di ritardo rispetto all’arrivo del «paziente zero» in città.
Il contagio mise in crisi il sistema sanitario della Repubblica. Nel 1576, al picco dell’epidemia, furono allestiti ospedali provvisori utilizzando vecchie galee, tende e baracche. Il Lazzaretto Vecchio si trovò a ospitare dagli otto ai diecimila pazienti. Il notaio Benedetti lo descrisse come l’inferno in terra, «ove da ogni lato veniva puzzore et insopportabile fetore», in cui continuamente risuonavano i gemiti dei malati, ammassati «tre o quattro per letto», costretti a medicarsi da soli, per la carenza di personale. L’assistenza era un compito rischioso, tanto che a Milano il cardinale Carlo Borromeo suggeriva ai curati di concedere l’assoluzione dai peccati a medici e infermieri disponibili alla cura degli appestati.
Conseguenze
Il fatto che l’Italia fosse all’avanguardia nella lotta alle pestilenze, non la risparmiò dai pesanti costi umani, sociali, psicologici ed economici. Gli studi di Guido Alfani hanno dimostrato come le epidemie del passato ebbero in Italia conseguenze di lunga durata: carestie, cali demografici, miseria e un enorme indebitamento pubblico.
L’esperienza dell’epidemia del 15751577 ebbe quanto meno l’effetto di suggerire un maggiore coordinamento nella lotta alla peste. Verso la fine del secolo, le magistrature sanitarie della penisola svilupparono un approccio più collaborativo nella gestione delle emergenze epidemiche, nel contenimento del contagio e nell’imposizione di restrizioni. Tuttavia, viste le difficoltà nell’imporre limitazioni al movimento di beni e persone, il sistema poteva mostrarsi impreparato di fronte all’esplodere di una nuova pandemia, come accadde con la peste del 1630.
Rimane il fatto che, nonostante i costi ingenti, le città italiane superarono le crisi epidemiche e ridussero l’impatto della peste, malattia che scomparve dalla penisola nel XVII secolo. Vi riuscirono anche grazie a misure di controllo e di contenimento, molte delle quali tuttora in uso.