Corriere della Sera - La Lettura
Senti? Bartók fa le coccole E per il dopo sotto col Bolero
Che cosa c’entra Vivaldi con il mondo virtuale di questi giorni? C’entra, c’entra... Idem il clavicembalo di Couperin: pochi gesti, come i nostri. Il sinfonismo di John Adams invece ci invita a un nuovo equilibrio. Parola di compositore
Il primo brano da ascoltare, in questo marzo segnato dal coronavirus, è La
primavera, da Le quattro stagioni di Vivaldi. Perché lì, come nelle altre stagioni della raccolta, Vivaldi riflette in maniera acuta sul rapporto tra naturale e artificiale — oggi diremmo: tra reale e virtuale. Cioè sulla nostra vita confinata a casa mentre fuori splende il sole. Da secoli, infatti, ascoltiamo quella musica come se fosse la rappresentazione di un paesaggio, con tanto di allusioni, nelle diverse stagioni, a temporali, grilli, cani che latrano, vento; mentre invece si tratta di una partitura nella quale dominano l’artificio, l’invenzione, il virtuosismo, cioè prodezze tecniche che poco hanno a che fare con colline, boschi e spiagge. Vivaldi, nel realizzarlo, è stato così abile che il suo paesaggio immaginario, fittizio, ci appare così bello che lo sostituiamo, istintivamente, alla realtà. E scambiamo piacevolmente il trionfo di uno spettacolo barocco con una cartolina.
La seconda partitura alla quale affidarci, ora che concentriamo la vita in meno gesti, è quella delle Pièces de clavecin di Couperin, anch’esse d’inizio Settecento. Una lezione di fantasia declinata, per certi versi, a mani legate. Couperin si limita infatti al clavicembalo, strumento meraviglioso ma per sua natura più uniforme: un solo timbro, una sola dinamica. È perfetto per costruzioni musicali dove prevale la forma, la logica interna ma sembrerebbe refrattario alla varietà. E invece Couperin vi riversa ironia, lirismo, libertà creativa, tanto che, pur nella compattezza fonica, risulta impossibile annoiarsi. Senza contare il fatto che alcuni dei titoli sono casualmente vicini ai giorni che
viviamo, e ai quali forse possono portare sollievo ( La convalescente, Les Chinois, Les ombres errantes...).
Un terzo brano per quando proviamo a porre mente al ritmo diverso che potrebbe assumere la nostra vita dopo il contagio, è
Harmonielehre di John Adams. Il titolo di questo ampio brano sinfonico si potrebbe tradurre come «Lezioni di armonia» e fa il verso a quello di un celebre trattato di Arnold Schönberg. Quando Adams lo scrive, nel 1985, comporre utilizzando un linguaggio tonale risultava ancora deviante o sovversivo: imperava il pensiero delle vecchie avanguardie e il dogmatismo imponeva ai compositori altri percorsi — la musica seriale, quella aleatoria, quella spettrale, quella elettronica e così via. Ma lui se ne infischia, e fa nascere un capolavoro. Nel quale un sistema di organizzazione dei suoni che aveva funzionato per secoli (e ancora funzionava, e funziona, nella musica non classica) viene ripensato, reinventato, sfruttato in una logica diversa, e non cestinato in nome di una supposta modernità. Ecco, se vogliamo provare a cogliere un suggerimento su come tornare ad armonizzarci, con la natura e con gli altri, in Harmonielehre troviamo pane per i nostri denti.
La dolcezza è invece il segno del terzo
Concerto per pianoforte e orchestra di Bartók , quarto brano per queste settimane di lutti e addii. Il compositore, che era anche eccellente pianista, non lo scrisse per sé, come aveva fatto per i due aggressivi concerti precedenti: lo compose per la moglie, Ditta
Pásztory, anche lei un’interprete di classe ma mite, delicata. Per di più, Bartók stava morendo di leucemia e lo sapeva. Anziché sottolineare l’aspetto percussivo del pianoforte, come aveva fatto sino ad allora, inventò così una musica trasparente, amabile, dove prevalgono le coccole, affetto, anche nelle ultime 17 battute che lui non riuscirà a completare e che terminò l’amico e allievo Tibor Serly. Musica d’un addio.
Per cercare di intravedere una fine al moltiplicarsi dei contagi può infine aiutare l’ascolto del Bolero di Ravel, il pezzo sinfonico più famoso del Novecento, del quale l’autore non aveva capito molto. «Ecco un brano che i grandi concerti della domenica non avranno mai il coraggio di inserire nei loro programmi» disse alla vigilia della prima esecuzione; e invece la ripetizione ossessiva delle stesse due frasi, quel lunghissimo crescendo in cui i colori strumentali cambiano a ogni passaggio ma la musica si ripete sempre uguale, hanno fatto del Bolero un paradigma perfetto della modernità, dove i tempi digitali (nel 1928 li si chiamava «motorizzati») trovano la loro rappresentazione musicale più felice. Il bello è che, verso la fine, le ripetizioni fanno uno scatto, raggiungono il picco, e il pezzo cambia di tonalità, saltando da do a mi maggiore, lasciando sfogare la tensione accumulata nei 18 «giri» precedenti. Se si vuole leggere il brano come una metafora erotica — ce ne sono tutti i presupposti — quello è il momento dell’orgasmo, seguito dal suo bravo anticlimax con il ritorno in giù, a do maggiore. Oggi può piacerci ascoltarvi la fine della pandemia.