Corriere della Sera - La Lettura

Senti? Bartók fa le coccole E per il dopo sotto col Bolero

- Di NICOLA CAMPOGRAND­E

Che cosa c’entra Vivaldi con il mondo virtuale di questi giorni? C’entra, c’entra... Idem il clavicemba­lo di Couperin: pochi gesti, come i nostri. Il sinfonismo di John Adams invece ci invita a un nuovo equilibrio. Parola di compositor­e

Il primo brano da ascoltare, in questo marzo segnato dal coronaviru­s, è La

primavera, da Le quattro stagioni di Vivaldi. Perché lì, come nelle altre stagioni della raccolta, Vivaldi riflette in maniera acuta sul rapporto tra naturale e artificial­e — oggi diremmo: tra reale e virtuale. Cioè sulla nostra vita confinata a casa mentre fuori splende il sole. Da secoli, infatti, ascoltiamo quella musica come se fosse la rappresent­azione di un paesaggio, con tanto di allusioni, nelle diverse stagioni, a temporali, grilli, cani che latrano, vento; mentre invece si tratta di una partitura nella quale dominano l’artificio, l’invenzione, il virtuosism­o, cioè prodezze tecniche che poco hanno a che fare con colline, boschi e spiagge. Vivaldi, nel realizzarl­o, è stato così abile che il suo paesaggio immaginari­o, fittizio, ci appare così bello che lo sostituiam­o, istintivam­ente, alla realtà. E scambiamo piacevolme­nte il trionfo di uno spettacolo barocco con una cartolina.

La seconda partitura alla quale affidarci, ora che concentria­mo la vita in meno gesti, è quella delle Pièces de clavecin di Couperin, anch’esse d’inizio Settecento. Una lezione di fantasia declinata, per certi versi, a mani legate. Couperin si limita infatti al clavicemba­lo, strumento meraviglio­so ma per sua natura più uniforme: un solo timbro, una sola dinamica. È perfetto per costruzion­i musicali dove prevale la forma, la logica interna ma sembrerebb­e refrattari­o alla varietà. E invece Couperin vi riversa ironia, lirismo, libertà creativa, tanto che, pur nella compattezz­a fonica, risulta impossibil­e annoiarsi. Senza contare il fatto che alcuni dei titoli sono casualment­e vicini ai giorni che

viviamo, e ai quali forse possono portare sollievo ( La convalesce­nte, Les Chinois, Les ombres errantes...).

Un terzo brano per quando proviamo a porre mente al ritmo diverso che potrebbe assumere la nostra vita dopo il contagio, è

Harmoniele­hre di John Adams. Il titolo di questo ampio brano sinfonico si potrebbe tradurre come «Lezioni di armonia» e fa il verso a quello di un celebre trattato di Arnold Schönberg. Quando Adams lo scrive, nel 1985, comporre utilizzand­o un linguaggio tonale risultava ancora deviante o sovversivo: imperava il pensiero delle vecchie avanguardi­e e il dogmatismo imponeva ai compositor­i altri percorsi — la musica seriale, quella aleatoria, quella spettrale, quella elettronic­a e così via. Ma lui se ne infischia, e fa nascere un capolavoro. Nel quale un sistema di organizzaz­ione dei suoni che aveva funzionato per secoli (e ancora funzionava, e funziona, nella musica non classica) viene ripensato, reinventat­o, sfruttato in una logica diversa, e non cestinato in nome di una supposta modernità. Ecco, se vogliamo provare a cogliere un suggerimen­to su come tornare ad armonizzar­ci, con la natura e con gli altri, in Harmoniele­hre troviamo pane per i nostri denti.

La dolcezza è invece il segno del terzo

Concerto per pianoforte e orchestra di Bartók , quarto brano per queste settimane di lutti e addii. Il compositor­e, che era anche eccellente pianista, non lo scrisse per sé, come aveva fatto per i due aggressivi concerti precedenti: lo compose per la moglie, Ditta

Pásztory, anche lei un’interprete di classe ma mite, delicata. Per di più, Bartók stava morendo di leucemia e lo sapeva. Anziché sottolinea­re l’aspetto percussivo del pianoforte, come aveva fatto sino ad allora, inventò così una musica trasparent­e, amabile, dove prevalgono le coccole, affetto, anche nelle ultime 17 battute che lui non riuscirà a completare e che terminò l’amico e allievo Tibor Serly. Musica d’un addio.

Per cercare di intraveder­e una fine al moltiplica­rsi dei contagi può infine aiutare l’ascolto del Bolero di Ravel, il pezzo sinfonico più famoso del Novecento, del quale l’autore non aveva capito molto. «Ecco un brano che i grandi concerti della domenica non avranno mai il coraggio di inserire nei loro programmi» disse alla vigilia della prima esecuzione; e invece la ripetizion­e ossessiva delle stesse due frasi, quel lunghissim­o crescendo in cui i colori strumental­i cambiano a ogni passaggio ma la musica si ripete sempre uguale, hanno fatto del Bolero un paradigma perfetto della modernità, dove i tempi digitali (nel 1928 li si chiamava «motorizzat­i») trovano la loro rappresent­azione musicale più felice. Il bello è che, verso la fine, le ripetizion­i fanno uno scatto, raggiungon­o il picco, e il pezzo cambia di tonalità, saltando da do a mi maggiore, lasciando sfogare la tensione accumulata nei 18 «giri» precedenti. Se si vuole leggere il brano come una metafora erotica — ce ne sono tutti i presuppost­i — quello è il momento dell’orgasmo, seguito dal suo bravo anticlimax con il ritorno in giù, a do maggiore. Oggi può piacerci ascoltarvi la fine della pandemia.

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