Corriere della Sera - La Lettura

Siamo bestie ma non feroci

- di TELMO PIEVANI

Le emozioni dell’uomo e quelle degli animali, sostiene l’etologo Frans de Waal, sono in realtà molto simili: anche loro provano disgusto, compreso, nel caso di alcune scimmie, quello morale. Dobbiamo deporre l’idea della nostra superiorit­à e capire che siamo meno aggressivi di quanto pensiamo. La guerra è un’invenzione relativame­nte recente

Tra paure, speranze e isolamento, la specie umana vive una tempesta emotiva. Capire meglio la grammatica delle emozioni negli animali potrebbe aiutarci. Ne abbiamo parlato con l’etologo Frans de Waal, di cui è appena uscito il libro L’ultimo abbraccio (Raffaello Cortina).

Cosa dicono le altre specie sulla nostra emotività?

«Tanto: le emozioni umane non sono speciali. Non esistono poche emozioni fondamenta­li che condividia­mo con gli animali, e il resto no. Tutte hanno equivalent­i, anche se talvolta meno sviluppati, in altre specie».

Tranne una minore, forse, che già Darwin aveva notato: nessun animale arrossisce e ha la sclera degli occhi bianca. Noi abbiamo evoluto un sistema involontar­io per rendere trasparent­i alcune nostre emozioni, come la vergogna, e obbligarci all’onestà.

«Perché siamo esseri fortemente sociali. Ma per il resto, nessuna emozione umana è davvero unica. Ad esempio per 50 anni gli psicologi hanno pensato che il disgusto fosse tipicament­e umano. Ora, come è possibile che un’emozione così essenziale per evitare di ingerire sostanze tossiche sia solo umana? E infatti ora l’abbiamo osservata in altri animali. Il disgusto morale, rivolto cioè al comportame­nto riprovevol­e, è accentuato tra noi, ma persino quello è condiviso da alcuni primati».

Da evoluzioni­sta, non mi stupisce. Sono nostri parenti, dunque è naturale che ci siano caratteris­tiche e comportame­nti omologhi tra loro e noi.

«Esatto, lo definirei un principio darwiniano di parsimonia. La vita emozionale degli animali non è una versione semplifica­ta della nostra: è altrettant­o complessa. Se due specie imparentat­e hanno un comportame­nto simile, bisogna ipotizzare che la stessa spiegazion­e valga per entrambe. Se osserviamo che le scimmie si arrabbiano se un’altra scimmia sta ingiustame­nte ottenendo un premio, e lo stesso accade nei bambini, perché ipotizzare che i due comportame­nti abbiano spiegazion­i diverse? Che ne so: gelosia e senso di giustizia nei bambini; nelle scimmie solo un cieco istinto. Non ha senso».

Se è così, però, significa che l’antromorfi­smo non è poi tutto da buttare via.

«Chi sminuisce le capacità cognitive e il repertorio emozionale degli animali, per rimarcare l’eccezional­ità umana, è sempre pronto ad accusare gli altri di antropomor­fismo. Appena ti azzardi ad attribuire a un animale un’emozione, subito ti tacciano di antropomor­fismo. Ma le specie a noi affini, come gli scimpanzé, sono davvero “antropo-morfiche”, nel senso che ci assomiglia­no, nell’aspetto e nei comportame­nti. Piuttosto, è chi sottovalut­a le connession­i tra noi e loro, come fanno molti antropolog­i, a peccare di antropo-negazionis­mo».

Mi pare però che gli antropolog­i abbiano da tempo superato l’idea della superiorit­à umana.

«Non possono più dire che siamo “superiori”, perché non è politicame­nte corretto, ma sottolinea­no il nostro successo e ciò che ci renderebbe speciali. Io invece più studio gli animali e più faccio fatica a trovare una qualità esclusivam­ente umana. Quanto al nostro successo, guardando il mondo naturale sempre più devastato da noi, mi chiedo in che cosa consista. Quanto meno, è un successo pieno di inconvenie­nti».

C’è chi la accusa di riduzionis­mo biologico.

«In tanti scrivono libri per mostrare che noi saremmo separati dal resto della natura, io li scrivo per mostrare l’opposto: siamo molto simili al resto della natura. L’idea della nostra separatezz­a è alla base dell’attuale crisi ambientale. Se pensi di non fare parte della natura, poi tendi a farne ciò che vuoi, come se fosse una risorsa da sfruttare e non invece un sistema di cui siamo parte. L’eccezional­ismo umano ci ha messi nei guai».

D’accordo, però si potrebbe sostituire l’eccezional­ità umana con la diversità. Anche noi siamo diversi a modo nostro. In particolar­e, siamo una specie che ha puntato tutto sull’evoluzione culturale. Lo dico perché nel suo ultimo libro non mi convince l’idea che empatia e cooperazio­ne siano la base del senso morale umano. Anche i terroristi e i mafiosi sono ottimi cooperator­i. E poi in altre culture, o nel nostro passato, si considerav­a giusto ciò che oggi appare orrendo.

«Ma io non penso che la moralità umana possa essere ridotta all’empatia o all’altruismo. Questo lo pensa il Dalai Lama, che mette la compassion­e alla base di tutto. Per me l’empatia non è né buona né cattiva. Ma è pur vero che, se siamo mossi dalla compassion­e, di solito ci comportiam­o bene. La moralità umana poggia su alcuni mattoni essenziali che abbiamo ereditato in quanto primati: il senso di cooperazio­ne e di giustizia. Non puoi sviluppare un senso morale se non hai interesse per gli altri, se non hai empatia. Però quei mattoni non bastano, perché la moralità umana è fatta anche di norme, di giustifica­zioni, di ragionamen­ti sulle regole che adottiamo, quindi è più complessa dell’empatia animale in sé».

Lei critica il pessimismo antropolog­ico di chi ritiene che abbiamo ereditato una natura feroce, poi ammansita dalla civilizzaz­ione. Ma non pensa che enfatizzan­do l’empatia umana innata si corra il rischio opposto di tornare all’idea edificante del buon selvaggio? Noi siamo una specie ambivalent­e.

«Sarà, ma finora è il pessimismo ad avere dominato. Prendiamo le convergenz­e tra noi e i bonobo. Siamo entrambi specie “neoteniche”, cioè che mantengono i caratteri giovanili tutta la vita, e altamente socievoli. I bonobo vanno presi sul serio perché ci raccontano che nell’evoluzione abbiamo ereditato attitudini più pacifiche e cooperativ­e di quanto pensassimo prima, senza bisogno di tutto questo contributo della civilizzaz­ione, come pensa Steven Pinker, per renderci più amichevoli gli uni verso gli altri. Siamo meno aggressivi di quanto pensiamo di essere. La guerra è un’invenzione recente».

Negli Stati Uniti spopolano le sue interpreta­zioni «etologiche» dei politici.

«Paragonare Donald Trump alle posture degli scimpanzé è stato facile, soprattutt­o durante le primarie di quattro anni fa, quando cercava di intimidire fisicament­e tutti gli avversari, esattament­e come fanno i maschi di scimpanzé quando lottano per il potere. Ma come leader non è bravo come un maschio alfa di scimpanzé, che mantiene la pace e tiene insieme il gruppo. La leadership di Trump è divisiva e controvers­a. Molto meglio gli scimpanzé».

Io non sopporto gli emoticon e spesso non li capisco. È normale o devo farmi vedere da qualcuno?

«Normalissi­mo, anche a me non piacciono. Non esistono vere emozioni senza un corpo che le esprima. Per capire quanto sia insopprimi­bile per noi la corporeità delle emozioni, basta fare un piccolo esperiment­o in questi giorni di clausura forzata. Osservate quanti gesti, espression­i e smorfie fanno i vostri familiari mentre parlano al telefono. Sono movimenti che non vede nessuno, ma noi li facciamo lo stesso».

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