Corriere della Sera - La Lettura
Con gli uomini che fecero l’impresa: il tunnel del Bianco Sara Loffredi racconta le silenziose sfide di un ingegnere e di un capocantiere per il traforo
Nel 1787 il naturalista francese Horace-Bénédict de Saussure, pioniere dell’alpinismo scientifico e autore di una delle più belle relazioni di viaggio settecentesche (i quattro volumi del Voyage dans les Alpes), raggiunse la vetta del Monte Bianco e ne calcolò per la prima volta l’altezza con incredibile precisione; tornato a casa appuntò sul suo diario: «Giorno verrà che sotto il Monte Bianco si scaverà una strada carrozzabile e queste due vallate, quella di Chamonix e quella di Aosta, saranno unite». Profezia che si sarebbe realizzata meno di 200 anni dopo, quando l’ingegner Dino Lora Totino e il geometra Pietro Alaria avviarono il cantiere che nel 1965 si sarebbe concluso con l’inaugurazione del traforo, alla presenza dei presidenti Saragat e De Gaulle. La storia dello scavo, iniziato in modo quasi clandestino da Lora Totino nel 1946, e proseguito come una gara con i francesi per l’arrivo al traguardo della progressiva cinquemilaottocento, punto fissato per l’incontro delle squadre di minatori al centro della galleria, è di per sé rappresentativa di un’epoca in cui le sfide titaniche della tecnica e le speranze di collaborazione internazionale erano realizzabili.
Su questo sfondo, accuratamente ricostruito a partire dalle relazioni topografiche di Alaria e dei documenti del tempo, Sara Loffredi ambienta il suo secondo romanzo, Fronte di scavo, e accompagna il lettore in un percorso che non è di ascesa e di conquista ma di immersione e di profondità. Ettore, ingegnere milanese responsabile del progetto, e il capocantiere Hervé sono impegnati in una sfida senza precedenti contro il tempo, contro le insidie naturali e contro la Regina: la montagna appare inscalfibile e feroce, è un’entità estranea e maestosa, a tratti nemica e mai, neanche per un istante, specchio di un io alla ricerca di sé. Le rocce granitiche del Bianco respingono l’uomo: minacciano crolli, rallentano gli scavi con perdite d’acqua che raggiungono i mille litri al secondo, pretendono un tributo di vite umane a una sfida che assume talora i tratti dell’hybris classica. La chiesa di Notre Dame de la Guérison dall’alto sembra proteggere il cantiere ma in realtà gli uomini che vi lavorano sono soli di fronte a uno scavo che assume anche un valore intimo e psicologico. Sbalzato in un ambiente ostile, Ettore deve trovare il suo passo e la sua voce, il fiato giusto per resistere in quota: «Cercavo appigli, sentendomi ancora un corpo estraneo a quell’ambiente, ma intanto il bosco respirava insieme a noi, facendosi attraversare con pazienza. Lo sentivo pulsare, forte, tutto intorno».
Lo scavo a cui è chiamato Ettore è, come quello del tunnel, un’impresa collettiva: nessuna delle due sfide potrebbe essere vinta in solitudine. Vette alpestri e profondità interiori possono esser conquistate solo insieme: Ettore impara a domare la fatica dell’ascesa grazie a Hervé, si pacifica con il suo passato grazie all’incontro con Nina (l’unica donna del cantiere, forse la figura più standardizzata), impara ad ascoltare la sua voce grazie a Samiel, un rabeilleur, un guaritore, letteralmente un «aggiustatore» le cui mani scavano una strada nel corpo di Ettore: «Sembrava che le dita seguissero la via del nodo sciogliendone i capi. Torceva e fletteva, girava e scrocchiava, penetrando con le dita bagnate di grappa dentro i muscoli, i nervi, i legamenti». Ma Samiel non è solo un massaggiatore: i suoi movimenti regolari portano in superficie anche i ricordi di un passato remoto, di relazioni interrotte i cui fili chiedono di essere riannodati, come quelli che legano Ettore al fratello Giovanni. C’è qualcosa di indicibile nelle altezze alpine, una alterità che si rispetta con il silenzio e la fatica: così, nel silenzio, Ettore ritrova il fratello, nella parsimonia delle parole Ettore e Hervé ricostruiscono un rapporto incrinato a causa di Nina. Ma è un silenzio che crea passaggi e abbatte pareti.