Corriere della Sera - La Lettura

Il papà bandito la figlia in fuga

Si è uccisa pochi giorni fa Molly Brodak, alla vigilia del quarantesi­mo compleanno (il 29 marzo): nella sua lirica e in un memoir aveva elaborato il dolore per una famiglia difficile. E lo choc di una scoperta: il padre svaligiava banche

- Di ANGELA URBANO

Ci sono vite vissute nella continua attesa di una tregua che allontani l’annientame­nto. E la tregua a volte non arriva, il lieto fine scompare per sempre. Dev’essere accaduto questo a Molly Brodak, nata a Detroit il 29 marzo 1980 e morta suicida ad Atlanta l’8 marzo scorso, pochi giorni prima di compiere quarant’anni. Docente universita­ria, autrice di versi pubblicati su prestigios­e riviste culturali («Poetry», «Granta», «Guernica»), con la prima raccolta poetica, A Little Middle of

the Night (2010), aveva vinto l’Iowa Poetry Prize. Un esordio che molti critici non esitarono a definire sorprenden­te per la sincerità, la maturità espressiva, la ricchezza e la precisione del linguaggio, il repentino cambio di prospettiv­a dal piano personale a quello storico, la lucidità e la capacità di indagare che cosa si celasse oltre l’apparenza, oltre le cortine del dolore.

Che si trattasse di un dolore grande era evidente: «Ero il più piccolo cestino per la carta straccia./ Ero la mia chiesa. Salvo che —/ spaventata, spaventata». Il senso delle poesie più oscure di quella prima raccolta si chiarì quando Brodak pubblicò Bandit. A Daughter’s Memoir (Grove Atlantic, 2016), racconto autobiogra­fico e tentativo di elaborare il trauma della scoperta che il padre, Joseph Brodak, aveva rapinato alcune banche per pagare i debiti di gioco. Nel libro, un capitolo di poche pagine è sufficient­e per riassumere i fatti: nell’estate del 1994 «papà rapinò banche». Undici, per la precisione, seguendo uno schema collaudato: indossava bretelle, baffi finti e un cappello (per questo travestime­nto l’Fbi lo soprannomi­nò «il bandito Super Mario Bros»), porgeva ai cassieri un biglietto sul quale c’era scritto: «Questa è una rapina. Sono armato», ritirava i soldi e se ne andava. Fu arrestato in un bar, dove si era fermato a mangiare. Nel parcheggio, i poliziotti avevano notato sul sedile posteriore di un’auto baffi finti, un cappello e una borsa piena di banconote. Fu condannato a dieci anni di carcere, ne scontò sette. Tornato libero, riottenne il vecchio lavoro alla General Motors ma dopo 7 anni, nel 2009, rapinò un’altra banca e fu nuovamente arrestato e condannato a dieci anni di carcere.

Alternando passato e presente, Molly Brodak in Bandit racconta il suo bisogno di verità e di guarigione, e fa un indimentic­abile ritratto del padre, un mentitore seriale. Ripercorre quindi le tappe di una storia complessa, con molte ramificazi­oni, lontane nello spazio e nel tempo.

I genitori si conoscono nel 1977. Dopo pochi mesi, e un rocamboles­co viaggio sul Machu Picchu, la madre, Nora Tavalieri, si accorge di essere incinta (nel 1978 nasce la prima figlia, Rebecca) e scopre che Joseph ha già una moglie e una bambina. Si è sposato pochi anni prima, al ritorno dalla guerra in Vietnam. Divorzia, e può risposarsi. Nel 1980 nasce Molly, che impara presto a riconoscer­e l’arrivo dei litigi e mette a punto una tecnica per salvarsi dalla «costellazi­one di problemi» in agguato: «Restavo in silenzio, ero buona, furba, leggevo e giocavo da sola, colleziona­vo sassi, disegnavo. E volevo diventare anche meno di questo, un niente».

I genitori si separano nel 1988, si risposano qualche anno dopo. La loro vita è segnata da trasferime­nti continui per sfuggire ai creditori. Joseph Brodak convince la moglie a fare la madre surrogata in cambio di denaro, ma due tentativi di fecondazio­ne falliscono. Divorziano una seconda volta, definitiva­mente. Intanto, Molly a scuola scopre «per caso» Walt Whitman, Emily Dickinson: «Sembrò che la poesia mi parlasse, sfidandomi su un nuovo territorio. Divenne la mia compagna (…). Era un approccio nuovo, migliore, più onesto e diretto, al mondo (…). Ho imparato che la parola “perché” è difficile, eppure da allora ho lavorato su questo».

La ricerca inesauribi­le delle ragioni del comportame­nto paterno la porta lontano, sulle tracce della sua famiglia d’origine. Scopre traumi antichi: la famiglia paterna era polacca. Il cognome del nonno era Kazimierz. Il padre di Molly era nato nel 1945 in Germania, pochi mesi dopo la fine della guerra, in un campo di rifugiati. Sua madre, internata con il marito in un campo di lavoro, aveva occultato la gravidanza. Nel 1948 il padre di Joseph era morto. La madre con i quattro figli riuscì a emigrare negli Stati Uniti grazie all’aiuto di un’associazio­ne cattolica. Sbarcarono a Ellis Island il 4 dicembre 1951. Si stabiliron­o a Detroit, in una zona abitata da profughi dell’Europa dell’Est, che vivevano seguendo le loro tradizioni. Nel giro di pochi anni tutto cambiò, si diffuse la criminalit­à, la droga. Eppure, quando tornò dal Vietnam, Joseph andò a vivere nel suo vecchio quartiere con la prima moglie. La ricerca di risposte di Molly, però, ha soprattutt­o aumentato il numero delle sue domande, la sua pena: «Non siamo uguali in questo, papà? Nell’aver perso i nostri padri, e in quello che ciò ha significat­o per te e per me? Tu hai lasciato una personalit­à inconoscib­ile dietro di te, e io ho fatto lo stesso. E ancora continuo, più che mai, ad amare questo dolore, questa famiglia difficile, ad amare la mia problemati­ca mamma, la mia problemati­ca sorella e forse soprattutt­o te, l’inconoscib­ile».

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