Corriere della Sera - La Lettura
Guardo dalla finestra: un fiore sfida il silenzio
Guardo la tv, ma è più verosimile che sia la tv a guardare me: mi guardano i grandi obesi con la poesia delle loro storie; mi guardano gli ossessivi che mangiano un rotolo di carta igienica al giorno; mi guardano quelli che sopravvivono nella giungla senza cibo né vestiti. Mauro Covacich prosegue il Diario a staffetta aperto su «la Lettura» della scorsa settimana da Sandro Veronesi: otto scrittori che raccontano otto settimane di un’Italia (una casa, un mondo) mai vista prima. La prossima settimana tocca a Silvia Avallone. Covacich è un maratoneta e si è dato un obiettivo da maratoneta: un record segregativo, non uscire mai. Però guarda dalla finestra. E questo è quello che ha visto...
Il silenzio arriva a ventate, entra in casa attraverso le finestre perennemente aperte sulla strada, si siede al mio tavolo. Non so perché glielo permetto, spero sempre di abituarmici, di riuscire a capirlo. Il silenzio di una città di tre milioni di abitanti in pieno giorno. Resto ore sul davanzale a contemplare il pratone che ondeggia come una distesa di grano, il movimento della luce del sole sull’erba alta. In fondo si intravede Ponte Milvio, senza più i ragazzi, senza più i tavolini sulla piazza, solo tante cornacchie, le livree lucide come carrozzerie, che zompettano perplesse dove prima c’erano i piccioni, le patatine, le briciole di apericena. Ma gli altri uccelli non hanno esitazioni. I pappagalli verde follia, ad esempio, svolazzano sugli alberi in fiore, e quand’è sera, le rondini si producono nelle loro mirabolanti picchiate a becco spalancato. Sono tornate le rondini. Ecco la prima cosa che fa male: vedere che il mondo là fuori continua indifferente, forse anche meglio, a giudicare dai dati sull’inquinamento.
Sandro Veronesi nel suo diario ipotizzava la possibilità di un’inversione dei ruoli, noi saremmo il virus e il virus sarebbe una reazione immunitaria del pianeta contro di noi. Chissà, forse ha ragione, a me comunque il mondo senza di noi non interessa. Quella semmai è la Terra, con i suoi moti di rotazione e rivoluzione, la biosfera piena di specie vegetali e animali, ma il mondo è una visione, la mia visione, il mondo è una cosa di noi umani, è la forma in cui noi facciamo esperienza della Terra, è il territorio che diventa paesaggio, è la nostra avventura terrestre, è appunto il nostro modo di stare al mondo. Non so se sono il virus, so che la spiegazione ecologica non mi convince, o meglio, non mi basta. So di essere colpevole, ma la mia colpa è più profonda, precede il danno, essendone — se ha senso dir così — la condizione. Io sono colpevole, non perché contribuisco ad ammalare il pianeta; al contrario, il pianeta si ammala perché io e ogni uomo e ogni altro essere vivente siamo segnati dalla colpa per il semplice fatto di esistere. Lo dice Anassimandro parlando della Natura ( Perí phýseos), e io gli credo. Ogni essere vivente muore alla fine della sua breve parabola per pagare la colpa di essere venuto alla luce. In un modo diverso lo dice anche San Paolo nella Lettera ai Romani, e io gli credo. Poi non credo alla salvezza, non credo a un ente perfettissimo dotato di volontà e intelletto, regista di tutto questo, virus compreso, sempre al lavoro su una sceneggiatura incomprensibile, o per lo meno piuttosto cervellotica. Ma credo al peccato originale, a una specie di malattia della materia («Quest’atomo opaco del male», Pascoli). Non credo nel Padre giudice e castigatore, credo nel Figlio umano, sceso per combattere al nostro fianco, credo in un Dio amorevole e del tutto impotente di fronte al male, un Dio che allarga le braccia insieme a noi di fronte a una vita essenzialmente, ontologicamente ingiusta e totalmente insensata. Ma questo solo per dire che la questione del «perché» sia comparso il virus, per quanto mi riguarda, è già risolta. Ciò che non mi dà pace è il «come», l’istantaneità con la quale ha modificato le nostre esistenze. Come andrà in seguito.
Come faremo se, dopo esserci stropicciati gli occhi, questa allucinazione non svanirà. Come ci adatteremo
se un cambiamento così imprevedibile e straordinario a sua volta non cambierà, o peggio, innescherà una catena di nuovi cambiamenti. Come affronteremo il suo annunciato ritorno il prossimo inverno (se è poi vero che durante la stagione calda sparirà). Come accetteremo questa nuova temporalità, questa nuova socialità, il silenzio delle nostre belle strade piene di buche, il vuoto disabitato delle scuole e dei cinema e delle trattorie e di tutte le piazze concepite da noi apposta per noi, gli umani, i cittadini, gli abitanti.
Lo so, bisogna pensare positivo, sebbene sperare che «tutto andrà bene» è solo un modo per tenere a bada l’immaginazione: come ogni trucco, non sempre riesce, a me ad esempio riesce molto di rado. Ho seguito i consigli in tv, alla radio, in rete, su come impiegare il tempo in modo costruttivo. Avevo grandi propositi, rileggere l’Eneide, lavare i vetri, ma poi mi sono ritrovato a prolungare il sonno in un dormiveglia mattutino pieno di ombre con il solo scopo di accorciare le giornate. I tre incontri all’università di Torino, l’invito all’istituto italiano di Madrid, le continue mail di rammarico che disdicono gli impegni e rilanciano con ammirevole fiducia verso un futuro imminente, puntellato su inevitabili sine die, un avvenire vago e inaffidabile. Cosa sono io senza i miei appuntamenti, le mie scadenze? In vista di quale obiettivo mi devo alzare domattina? Per chi? Cos’è l’uomo senza un progetto? Pro-iectum: come può procedere senza quel tracciante in cielo? Il tempo dilaga, sembra adagiarsi come il budino nelle formelle delle città svuotate. Come si fa a distrarsi da una simile COSA? Si può davvero pretendere che mi metta a leggere un libro, o peggio a scriverlo, quando l’unica presenza che anima la via a ritmi più o meno regolari è una pattuglia della polizia municipale che urla nell’altoparlante di restare in casa?
La mia mente è colonizzata dal virus, non c’è spazio per altro. Ne parlo in continuazione. Ecco un’altra novità, da quando è accaduto tutto ciò, paradossalmente sto meno solo. Mi capita di parlare con più gente, la vedo via Skype, amici che prima sentivo una volta ogni tanto si sono fatti vivi o hanno accettato la mia chiamata (anch’io a un certo punto ho iniziato a prendere l’iniziativa). Prima non parlavo quasi con nessuno, incontravo moltissime persone, alle quali mi rivolgevo raramente, tuttalpiù qualche battuta con i ragazzi dei due bar dove andavo a prendere il caffè a metà mattina, le quattro chiacchiere che ho imparato a fare anch’io dopo quindici anni di vita a Roma, parole che non significano niente, ma ti fanno tornare a casa col sorriso sulle labbra. Ora che non incontro più nessuno, parlo molto e con tutti. Lascio un commento alla fine del film nella sala virtuale di MyMovies. Ogni tanto scambio pure qualche parere post partita con lo sfidante di turno su Chess.com dove fino a ieri l’etichetta, uguale per gli scacchisti dei cinque continenti, suggeriva di disabilitare la chat. Bene, sono meno laconico, ma non so se è meglio, la mia socievolezza è chiaramente un segno di instabilità, un’illusione ottica dell’amicizia digitale.
Per me il corpo è sempre stato fondamentale nel rapporto con gli altri. Non solo l’amore, ma anche l’amicizia passava attraverso le cose che facevo insieme a loro. La corsa, ad esempio. Si parla poco mentre si corre, oltre una certa andatura parlano solo i corpi. Ma anche fuori dallo sport, l’amicizia, soprattutto maschile, può radicarsi in una consuetudine, in un’attività condivisa, spesso nutrita di poche parole. Ricordo l’osteria frequentata da mio padre a Trieste quand’ero bambino: giocavano a carte, bevevano un bianchetto, ma parlavano pochissimo, tutt’al più lazzi, battute, mai una conversazione. Eppure chiunque, entrando lì dentro, avrebbe colto all’istante che erano amici.
Capisco di essere rimasto un uomo analogico, temo che questo profluvio di comunicazioni socializzanti non riuscirà a sedare il mio bisogno di contatto fisico. O forse sì, forse mi trasformerò anch’io. Troverò le risorse che ha trovato mia madre, la persona che ha saputo rinnovarsi di più negli ultimi anni, tra quelle che conosco. Si destreggia a meraviglia sui social, posta foto e commenti, chatta con gente da tutt’Italia, anche dal mondo, aiutandosi con Google Translate. Dopo lo shock dei primi giorni, non potendo domare la sua indole ipercinetica (prima della segregazione sgambettava l’intera mattinata per le vie del centro) ha ricavato spazio tra il mobilio e ora fa quaranta minuti di buon passo, su e giù tra camere e corridoio. Dice che dopo un po’ non sa più dov’è, né cosa sta facendo. Perde la cognizione del tempo e ogni riferimento col mondo reale. Vaga col pensiero, o forse prega alla maniera di un derviscio, chissà. Io ogni giorno prego perché sappia scansare gli spigoli di cui abbonda il suo appartamento.
Per mio conto, all’attività fisica preferisco rinunciare. Ce la fanno i malati? Ce la fanno i detenuti? Be’, ce la devo fare anch’io. Sono stato un maratoneta e in fondo anche questa è una forma di resistenza. E poi mi fa troppa tristezza l’uomo che vedo marciare in tuta sul lastrico solare del caseggiato di fronte. Meglio venti gocce di ansiolitico mattina e sera. E una buona sigaretta: il fumo, ecco il mio nuovo sport. Oltretutto, fumare consente di stare alla finestra senza passare per guardone. Un uomo fermo sul davanzale alla lunga disturba, ma basta una sigaretta perché la sua presenza si riempia di senso: è solo un tizio che sta fumando.
Io e mia madre facciamo lunghi video-pranzi con Maria e Marco, i figli di mia sorella che, come il marito, non può smettere di lavorare. Penso di continuo agli adolescenti. Non ho figli ma ho quattro nipoti: oltre ai due triestini, le figlie di mia cognata qui a Roma, Marti
Io e mia madre facciamo lunghi video-pranzi con i nipoti. Poi lei cammina per quaranta minuti cercando di scansare gli spigoli del mobilio di casa
na e Veronica. Seguono le lezioni al mattino su Google Meet, poi studiano e chattano con i compagni, le amiche, senza potersi stringere negli stessi spazi. Come riescono a resistere? Adolescenti isolati, mentre fuori è esplosa la primavera. Come fanno senza le ammucchiate innocenti, le scalmanate nei treni delle gite scolastiche? Come fanno senza potersi annusare, senza riconoscersi nella stessa bramosia delle spintarelle, dei pizzicotti? Come resistono senza i pigiama party?
Prima di chiudere la comunicazione, mia madre mi raccomanda di usare la mascherina, non sa che non esco. Mi sono imposto un record di resistenza, resto sul divano come i miei coetanei russi raccontati da Svetlana Aleksievic, nel ritratto manca solo la vodka. Guardo, anzi, mi lascio guardare dalla tv. Ci sono i grandi obesi, i trenta chili di pelle asportata, la poesia delle loro storie metamorfiche. Ci sono gli ossessivi, che hanno masse di capelli lunghe sei metri, che mangiano un rotolo di carta igienica al giorno, che si fanno pungere apposta dalle api. Ci sono quelli che sopravvivono tre settimane nella giungla senza niente per coprirsi né per procurarsi il cibo, un lui e una lei sconosciuti che scavano nella terra per filtrare un po’ d’acqua e si beccano la diarrea e vengono divorati dagli insetti e si detestano per tutto il tempo, pur restando ipercorretti. Ho l’impressione che mi guardino con approvazione: bravo, resta a casa.
Penso all’inizio, alla leggerezza con la quale accoglievo le immagini provenienti da Wuhan, a come cresceva in me uno strano brivido di eccitazione alle notizie dei primi casi in Italia. Cercavo ovviamente di tenerlo sotto controllo, me ne vergognavo, ma era lo stesso brivido di quando il terremoto aveva squassato il Friuli e anche noi di Trieste, sebbene lontani dall’epicentro, dormivamo accampati. Ricordo quelle serate sospese, con i miei e gli amici dei miei, le macchine sistemate in cerchio in chissà quale prato del Carso, l’apprensione degli adulti che traspariva negli sguardi più ancora che nelle parole, e noi bambini che trattenevamo a stento la contentezza per una simile sorpresa, una svolta così assoluta e inaspettata. Ma, Cristo santo, laggiù avevo dieci anni, come potevo ora essere così stupido? Eppure sentivo frizzare la novità sotto pelle nel modo più subdolo. Mi ostinavo a credere che avrei fatto il mio viaggetto di lavoro a Madrid, insieme a pochi altri passeggeri, spavaldi e osceni come me. Poi d’un tratto l’Italia ha chiuso, e l’attimo dopo, in un solo battito di ciglia, si sono visti i malati distesi a terra negli ospedali della capitale spagnola.
Essendo io impegnato alla rincorsa del mio record segregativo, è Susanna a rifornire la dispensa, quasi sempre attingendo al negozio di sotto per evitare le file dei supermercati, un’ex erboristeria ora rivendita di prodotti bio, gestita da ragazzi che noi chiamiamo i raeliani per la loro aria ispirata, della cui merce a lungo avevamo sottovalutato la qualità. La osservo in coda dalla finestra, dietro altre quattro persone ben distanziate. Le mascherine hanno sulle loro facce uno strano effetto rivelatore. È come se, nascondendo i lineamenti, tradissero la preoccupazione, l’angoscia che c’è dentro le teste. Mascherano e al tempo stesso smascherano. Sembra paradossale, ma il volto scoperto ha più possibilità di fingere, celato invece non ha più scampo, si irrigidisce, svela la sua verità, non a caso maschera in latino si dice persona.
Ma Susanna per fortuna non ha il mio umore. Rincasando dice: «Chi poteva immaginare che una faccenda noiosa come la spesa potesse diventare una cosa bellissima».
A sentire le notizie, sembra che «riprenderemo gradualmente», fra un po’, chissà, ma senza prossimità né tantomeno contatti fisici. Come cambierà il linguaggio, e quindi il pensiero, con una mutazione così radicale della nostra prossemica? In una quotidianità vissuta a distanza di sicurezza come si comporteranno i nostri occhi? Cambieremo il tono della voce? Gesticoleremo di più? I sentimenti cresceranno più rigogliosi o tenderanno a inaridirsi? Nell’attesa gli Stati hanno sollevato i ponti, seguiti subito dalle regioni. Alla prossima recrudescenza, prevista ai primi freddi da quasi ogni fonte, chiuderanno le città, e poi i quartieri e i caseggiati, e dentro i caseggiati, noi, gli abitanti, isolati scala per scala, pianerottolo per pianerottolo, porta per porta. E dall’interno connessi con tutti, col mondo intero. Piccole entelechie senza porte né finestre. Non mi ci vuole niente per immaginarle. Le vedo, ci vedo. Tutti che lavorano da casa, che si collegano e chattano e si toccano immaginando di essere toccati. Basta corpi, basta corpo sociale. Tanti Robinson Crusoe che si parlano in continuazione, da un’isola all’altra, quando si accontenterebbero di poter riabbracciare il loro Venerdì. Continueremo così, finché i reflussi esofagei, le coliti spastiche, le candide, le gastriti diventeranno un unico amalgama come nella sigla di Blob, un materiale esplosivo pronto all’innesco, che si accenderà prima nei nuclei familiari, con una pioggia di infanticidi e femminicidi, per finire in una conflagrazione universale come nelle ultime pagine della Coscienza di Zeno, una botta di aggressività di non so quanti megatoni.
O forse no, forse è solo un brutto sogno e tra un attimo riaprirò gli occhi. «Lo so che sta succedendo, ma a chi sta succedendo? È successo a te?». Sono le parole di uno dei sette protagonisti del poema Let Them Eat Chaos ( Che mangino caos) di Kate Tempest, una poetessa performer che ho scoperto tre anni fa qui, su «la Lettura», nella recensione di Angela Urbano, che non ringrazierò mai abbastanza. Bradley è sveglio nel cuore della notte insieme ad altri sei abitanti della stessa via, gente sconosciuta, ognuno chiuso nel proprio appartamento. Esametri rappeggianti nei quali sette individui come noi sono alle prese con il loro bilancio esistenziale. Il bello è che questi, per accorgersi l’uno dell’altro, devono uscire fuori dai loro minuscoli appartamenti, attirati da una specie di uragano biblico che li farà riconoscere come parte di un destino più grande (la Tempest ha letto senz’altro Leopardi). Noi invece abbiamo dovuto rinchiuderci per ottenere — forse, si spera — lo stesso risultato.
A proposito di Leopardi, ogni pomeriggio un fiorellino scende col suo monopattino sulla stretta banchina circondata dalle macchine in parcheggio. Direi una bambina, a giudicare dai leggins, ma da lontano non si capisce bene, anche perché indossa il caschetto. Così, tutta sola, in mezzo ai caseggiati sembra ancora più piccola. Spinge, spinge, raggiunge l’ultimo centimetro di marciapiede, fa dietrofront e ricomincia. Un fiorellino che sfida il silenzio. Ho deciso di chiamarla Ginestra.