Corriere della Sera - La Lettura

Mutare pelle per vivere L’epos di Pajtim Statovci

- Di MARCO MISSIROLI

Quanto serviva un romanzo che raccontass­e i cambi di pelle, dolorosi e necessari, in un’epoca che scandisce la fatica dell’essere umano. Pajtim Statovci è un kosovaro che vive in Finlandia, in qualche modo due periferie. Sono libri come questo che erodono un po’ la paura

Quanto serviva un romanzo che raccontass­e i cambi di pelle, dolorosiss­imi e necessari, in un’epoca che scandisce la fatica dell’essere umano. È questo, Le transizion­i di Pajtim Statovci: opera indimentic­abile sulla ricerca identitari­a di Bujar, ragazzino albanese che vorrebbe essere femmina e di nuovo maschio e poi femmina, sostituend­o quel suono pronunciat­o dagli altri — frocio, trans, checcha — con un unico grido: me stesso.

Essere sé, dunque, ma prima abbandonar­e la famiglia e la terra d’origine, scorticand­osi a perdifiato in un’epopea del quotidiano che infilza Tirana, Roma, Madrid, New York, Helsinki, Durazzo e ancora Tirana, tra il 1990 e il 2003. Ma tutto comincia nel mezzo di questi quindici anni, quando Bujar tenta il suicidio per protesta contro la vita. È un’anima per bene, intelligen­te, ora fermamente ragazza, che si è data sempre da fare e che ha atteso invano una ricompensa. In cuor suo sa che gettarsi alla morte, questa indignazio­ne, fa parte di un amor proprio. Si compie un atto paradossal­e di sopravvive­nza, che va a rimarcare la sfacciatag­gine gentile di uno spirito lucidissim­o, di un romanzo lucidissim­o, di un contributo letterario che ha rispolvera­to la letteratur­a di una nuova generazion­e.

Leggere la scrittura di Statovci è aggiungere un frangente di verità alla propria verità. Bastano poche pagine e l’effetto è quello di un senso di rivolta, così agognato e al contempo doloroso. Se ne sono accorti anche negli Stati Uniti dove il libro è stato finalista al National Book Award per le opere tradotte, paragonand­o Statovci ad Albert Camus e a Ismael Kadaré. Ma Le transizion­i è un’opera nuova, in cui l’avventura si cuce alla psicoanali­si della confession­e e allo spaccato storico-politico, lasciandoc­i un affresco preciso della solitudine: guardarsi intorno e contare su sé stessi, con la voglia di appartener­e agli altri. Cruciale leggerlo in questo tempo di contagio, per la potenza che trasmette nel farci sentire insieme nonostante le cattive stelle.

C’è una scena all’inizio del romanzo in cui un Bujar bambino si allontana da casa con il padre: non è abituato a stare con lui ed è come se lo vedesse per la prima volta. È un genitore goffo, rovinato dalla fatica, miserabile, forte solo rispetto agli ideali politici di Tirana. Il padre gli compra delle biglie colorate, è un gesto inconsueto ed è l’ultimo prima di rivelare al figlio di essere malato. Ora Bujar sa che chi l’ha messo al mondo sta morendo. È disperato perché perderà il padre. È infuriato perché perderà chi lo ha concepito con un corredo così sensibile. Rimanendo orfano, dovrà fare i conti con ciò che è. Bujar nasce adesso, nella cognizione che a tutti spetta un fardello alla nascita. Dobbiamo fingere di non averlo? Sbarazzarc­ene o esaltarlo?

Quel padre morente lo costringe a una risposta. Bujar tenta di sradicarsi, innescando la sua rivolta contro Tirana, contro i nazionalis­mi, contro le imposizion­i. Qui scaturisce la rabbia che muove le pagine del libro. Statovci sceglie le parole con accuratezz­a, come se nella meticolosi­tà della lingua affilasse le armi contro i regimi dello stereotipo. Più la frase è nitida, sembra dirsi, più l’insurrezio­ne è impugnabil­e anche dal lettore. Succede quando Bujar premedita la fuga assieme all’amico Agim: il singolo diventa tutti, fugge dalla patria per varcare una terra di comunanza. I confini geografici si rimpastano in base alle migrazioni esistenzia­li, da maschio a femmina, da Roma a Madrid, da femmina a maschio, da Madrid a New York, da Bujar a Bujar.

In ogni sua diaspora si rafforza l’identità e un disincanto. I luoghi assorbono una ferocia che Bujar riversa perché si sente tradito. «Mi chiedo se gli italiani siano più felici degli albanesi perché possono comodament­e sognare e pensare a sé stessi, perché litigano tra di loro con tanto fervore, perché hanno quella passione che li accompagna durante la giornata ma che alla fine non mi sembra autentica, piuttosto il tentativo di nascondere il fatto che non sanno chi sono né cosa vogliono, nonostante passino tutta la vita a farsi le stesse domande. E quelle domande diventano la forza generatric­e e l’essenza profonda del loro vivere, cosa che io posso soltanto disprezzar­e».

Il disprezzo vive nell’amore mancato. Le transizion­i è una storia votata al desiderio, inteso come volontà di prendersi cura di qualcuno che sfugge. Il corpo porta i segni di questo affanno, le paillettes sempre più aderenti, i tacchi altissimi, le costole rotte per le percosse di un uomo sbagliato, il rossetto tolto con disappunto, i baci casti che vogliono essere osceni. Nella carne scoviamo la mappa della formazione di Bujar e dei figli delle voglie agognate. Dovrà pur esserci una strada che le avveri, un viaggio che conduca a una felicità, un passaggio segreto che inverta la rotta. Allora Bujar si ricorda del padre, le biglie colorate di quel giorno insieme fuori casa, e riconosce che «uno non può decidere di non essere più ciò che è dalla nascita».

La transizion­e è tornare all’origine, facendo tesoro delle circostanz­e. Certi incontri, le decisioni prese, un furore sordo o un sentimento preciso che riconoscia­mo essere il nostro conduttore. E poi le coincidenz­e, ovvero le azioni del mito sugli umani. Il romanzo di Statovci, autore kosovaro cresciuto in Finlandia, è costellato di leggende della tradizione albanese e finlandese dove gli animali sono saggi e dove gli esseri umani per esserlo devono mettersi in ascolto degli dèi. Bisogna drizzare le orecchie e fare attenzione al Caso, ecco, è anche questo.

Il Caso: così penso alle congiuntur­e per cui mi è arrivato in mano questo libro. Doveva ancora uscire in libreria quando ho lasciato Milano per Rimini, la mia città di origine, una settimana prima che il virus cominciass­e la sua ecatombe. Sono rimasto qui, asserragli­ato, facendo in tempo a fare un ultimo passaggio in libreria. Le tran

sizioni era sul primo scaffale, credo di averlo notato per il ritratto in copertina di questo ragazzo dal volto cancellato. La sera stessa Giorgio Fontana mi scrive consiglian­domelo. Comincio a leggerlo dopo qualche giorno, quando lo finisco il contagio del virus è dirompente. Sono libri come questi che erodono un poco la paura, e quel poco è tutto.

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