Corriere della Sera - La Lettura

Quando Michelange­lo litigò con Raffaello

- Di ANTONIO FORCELLINO

Il 6 aprile 1520 moriva a Roma — famosissim­o, giovanissi­mo, invidiatis­simo — Raffaello Sanzio, uno dei «tre tenori» del Rinascimen­to (con Leonardo). In questo racconto Antonio Forcellino, biografo e romanziere, lo immagina il 23 febbraio 1508 alla stazione di posta di Sferracava­llo mentre incontra Michelange­lo, entrambi sulla strada verso Roma e la gloria

L’oste rimase sorpreso guardando il giovane scendere le scale poco prima dell’alba e sedersi al tavolo vicino a una finestra. Già la sera prima, quando era arrivato con l’incerata coperta di neve e tre borse di cuoio grosse come bambini ma leggere, si era chiesto chi fosse. In quella stagione erano pochi i viaggiator­i che si fermavano alla sua locanda prima di raggiunger­e Roma. Ancora qualche settimana e la primavera sarebbe arrivata rendendo più agevoli le sessanta miglia che separavano Orvieto da Roma. Non era un chierico e neppure un nobile, ma aveva un aspetto signorile che si intuiva non tanto dalla casacca di velluto nero, chiusa su una camicia bianca stretta al collo da una fettuccia di raso porpora, quanto da quel viso gentile sostenuto dal collo lungo e incornicia­to da capelli castani che gli scendevano fino alle spalle, tenuti fermi in testa da un berretto che non si era tolto da quando era apparso.

Ora guardava fuori dalla finestra i primi guizzi di luce che accendevan­o l’oro dei mosaici del Duomo: sembrava incantato da quello spettacolo. L’oste si avvicinò e gli chiese cosa desiderass­e. «Solo un piatto di fichi secchi e del giulebbo, se l’avete. Grazie».

Nella grande sala dell’osteria era intanto scesa la figlia dell’oste con in braccio un bambino di pochi mesi che aveva capelli ricci e arruffati come quelli di un angelo. Si sedette anche lei accanto a una finestra non lontano dal giovane e si strinse al petto il piccolo ancora insonnolit­o. Prima che l’oste tornasse, il giovane aveva aperto la borsa e tirato fuori uno stilo di argento appuntito insieme ad alcuni fogli di carta bambagina e, incurante dei fichi e del giulebbo poggiati davanti a lui, continuava a fissare la ragazza che sussurrava una cantilena al suo piccolo baciandogl­i la fronte. Poi si riscosse, sorrise e cominciò a tracciare alcuni segni veloci sulla carta dove comparvero, come per miracolo, la ragazza e il suo bambino. L’oste, trattenend­o il respiro, cominciò a muovere gli occhi dai fogli alla seggiola, dove la figlia cullava il nipote, e senza accorgerse­ne aprì la bocca incantato dai gesti del ragazzo. Sulla carta vide sua figlia e il bimbo investiti da una luce che non sembrava provenire dalla finestra, dove era ormai visibile l’intera sagoma del Duomo, ma direttamen­te dal paradiso, tanto era dolce l’espression­e che dava alla scena. La pezza di cotone, che la ragazza portava in testa, era diventata un turbante annodato con grazia sulla fronte che ricadeva lungo il collo, esaltandon­e la tornitura virginale, e lo scialle rammendato, che aveva sul petto, era divenuto un drappo sfrangiato sul quale rapidi tratti appena accennati lasciavano intuire un ricco disegno orientale. La sedia di castagno appena piallata su cui sua figlia si raccogliev­a per avvolgere il bambino era divenuta una seggiola intagliata da un raffinato scultore. Solo la tenerezza che emanavano le due figure abbracciat­e era rimasta la stessa, anzi era tanto più evidente sia nel disegno che nelle figure reali.

«Siete un mago», sussurrò sempre con gli occhi sbarrati l’oste, pulendosi le mani sul grembiule.

«Solo un pittore», sorrise il giovane senza staccare gli occhi dai fogli dove stava chiaroscur­ando la seggiola per catturare meglio lo scintillio della luce sull’oro che lui solo vedeva. «Mi chiamo Raffaello, vengo da Urbino e sto andando a Roma dal papa». L’oste assentiva con la testa accarezzan­do il desiderio di poter avere quel disegno miracoloso poggiato sul tavolo consumato dall’uso. Ma non ebbe il coraggio di chiederlo. «Dovete essere molto bravo se Sua Santità vi convoca a Roma con questi tempi». Raffaello abbassò gli angoli della bocca scuotendo un po’ il capo. «Giulio II è molto esigente e non ama aspettare. Spero di essere capace di servirlo bene».

«Papa Giulio merita di essere servito come Gesù in

croce. Ha liberato l’Italia dai tiranni e ridato alla Chiesa il suo tesoro. Prego per lui ogni notte. Che si conservi a lungo».

Un colpo alla porta fece sobbalzare i due uomini. Qualcuno già chiedeva di entrare a quell’ora. «Non siete il solo ad avere fretta di raggiunger­e Roma con questo freddo», mormorò l’oste mentre toglieva la sbarra da dietro la porta. Uno sbuffo gelido entrò insieme a un uomo piccolo, coperto da un saione nero incerato, che stringeva in mano due borse di cuoio duro che gli trascinava­no quasi a terra le piccole braccia. Fece pochi passi nella stanza senza posare le borse e, prima che si togliesse dalla testa il cappuccio, Raffaello l’aveva riconosciu­to. Si alzò e gli andò incontro accennando un sorriso. Fece per prendergli le borse, ma erano così pesanti che gli caddero dalle mani. «Michelange­lo, anche voi a Roma».

L’altro, toltosi il cappuccio, mostrò la fronte solcata da rughe rese profonde dalla cavalcata notturna e dal disappunto. Gli occhi piccoli in fondo alle orbite incavate avevano nell’iride minuscole screziatur­e gialle che davano mobilità al suo sguardo inquieto. Il naso era storto, deformato dal pugno di un amico di cui tutti sapevano a Firenze, e la bocca stretta, quasi nascosta dalla barba rada e mal curata. Le sue prime parole fecero rabbrividi­re l’oste più del vento gelido appena ricacciato fuori. «Pensavi di essere solo alla corte di papa Giulio?».

Raffaello tirò un sospiro e si sforzò di mantenere il tono gentile. «Niente affatto, so benissimo quanto Sua Santità vi ami, ma vi sapevo impegnato a Bologna a fondere la sua statua...». Michelange­lo non lo fece finire. «La statua è fusa e già collocata sul portale di San Petronio. Speravi che sarei stato trattenuto in quella città ancora per molto, non è vero?».

Poi si accorse che il suo tono sgarbato aveva spinto la ragazza a ritirarsi e abbassò la voce. «Lascia perdere le borse, sono troppo pesanti per te, ci sono i miei ferri, mazzuoli e scalpelli, non me ne separo mai, neppure quando dormo. Tu invece vedo che viaggi leggero, un po’ di carta e qualche pennello». Così dicendo si avvicinò al tavolo per guardare il disegno. «Non male, bisogna ammetterlo, sai trasformar­e le cose con grande abilità. Ma questo non ti servirà contro di me». E si lasciò cadere sulla sedia di fronte a Raffaello, che fece segno all’oste di portare un altro bicchiere. «Ma io non sono contro di voi. Perché dovrei essere contro uno scultore che ammiro tanto?».

Di nuovo la voce di Michelange­lo si alterò. «Ah. Vuoi dire che io sarei solo uno scultore e tu invece un pittore. Bel coraggio che hai, dopo aver copiato la Vergine, che ho dipinto nel tondo per i Doni, e averla trasformat­a in una Maria nel Compianto che hai dipinto per i Baglioni di Perugia».

Raffaello non si scompose. «È stato solo un modo per attestarvi la mia ammirazion­e».

«Allora sai che sono anche un pittore».

«Certo che lo so e ho ammirato anche il vostro cartone per la battaglia di Cascina».

«Hai copiato anche quello?».

Raffaello non rispose, si limitò a riempire il bicchiere che l’oste aveva portato. Michelange­lo poggiò la mano sul braccio dell’uomo che stava per tornare in cucina. «Avete del marzapane?».

«Sì, fatto da poco».

«Allora portatemel­o, e una minestra di piselli, e delle aringhe... e del pane», gli gridò dietro. «Non mangio da due giorni».

Raffaello si stupì. «Perché avete tanta fretta di arrivare a Roma?».

«Perché non voglio che vi arrivi tu prima di me. Il tuo amico Bramante...».

Raffaello lo interruppe. «Non è mio amico, è solo un compaesano che non ho mai incontrato di persona».

«Ma lui ti ama molto. Vorrebbe che fossero assegnate a te tutte le opere che ha in mente papa Giulio. Mentre gli ha sconsiglia­to di farmi fare la tomba che mi aveva commission­ato tre anni fa. E per la quale ho comprato già il marmo». Batté il pugno sul tavolo, quasi rovesciand­o i bicchieri, e riprese con foga. «Vorrebbe che tu facessi anche la volta che il papa ha promesso a me».

Raffello si tolse dalla testa il berretto, per sottolinea­re con quel gesto il suo rispetto per quello che, pur avendo solo pochi anni più di lui, considerav­a un maestro e al quale era disposto a perdonare il carattere terribile che stupiva ancor più del suo talento.

«Michelange­lo, il papa vuole rinnovare Roma e c’è posto per tutti nei suoi progetti. Io sono stato chiamato per decorare le stanze di palazzo che stanno conducendo alcuni pittori di cui Sua Santità non è molto contento. Non so nulla della volta, né della tomba. Ve l’ho già chiesto a Firenze anni fa, perché non possiamo diventare amici?».

Fu come se gli avesse rovesciato in faccia il bicchiere. Michelange­lo frantumò con le piccole mani nodose un tozzo di pane e si sporse sul tavolo per avvicinare il viso a quello dell’altro. «Raffaello, ascoltami bene. Con i tuoi modi da ninfa tra gli scogli puoi incantare tutti ma non me. Hai sedotto Firenze e ti stai avviando a sedurre Roma, ma non sedurrai me. So come sono fatti quelli della tua specie. I modi gentili, le promesse di amicizia e poi le coltellate alle spalle. Non c’è spazio per tutti e due né a Firenze né a Roma né nel resto del mondo. Io sono e sarò l’unico, sono pronto a sacrificar­e ogni desiderio, piacere, attimo della mia vita per la pittura e la scultura».

Poi, senza dare all’altro il tempo di replicare, si abbassò verso una delle sue borse e ne estrasse un rotolo di disegni. Fece spazio con una bracciata sul tavolo e ve li poggiò. «Guarda, questi sono i disegni della volta, sono già pronti e quando il papa li vedrà non ci sarà Bramante che tenga. Giulio è troppo furbo per lasciarsi buggerare dalle trame del suo servo. Tu ti accontenti di spillare lacrime dalle femminucce disegnando contadine che allattano. Io dipingerò la gloria del Creatore e il timore che deve incutere agli uomini. Io dipingerò la potenza di Cristo perché gli uomini imparino ad adorarlo. Le mie figure non consolano, il mio mondo deve atterrire».

Raffaello poggiò gli occhi sui fogli e il suono ostile della voce di Michelange­lo scomparve di fronte a quella visione. Era apparso un cielo nel quale un’intera umanità si affannava, soffriva e cercava scampo, raccontata solo attraverso i corpi meraviglio­si colti in ogni scorcio possibile e così naturali che neppure in sogno lui avrebbe potuto concepirli. Il mondo come lo aveva conosciuto e dipinto fino a quel momento era scomparso, cancellato da giovani ignudi di bellezza mai vista, da turbini di angeli che portavano in volo Dio Padre, che tendeva sotto un manto maestoso i muscoli per separare le tenebre dalla luce e con il solo suo gesto creava gli astri e le piante e le acque. Ma il suo volto impallidì quando gli occhi si posarono sulla figura distesa di un uomo più simile a un Dio nella sua perfetta bellezza, che porgeva la mano timorosa al Creatore sospeso nel cielo. Gli occhi di Raffaello si riempirono di lacrime. Non aveva mai avuto dubbi sulla grandezza del piccolo uomo che gli stava seduto di fronte godendosi il suo sgomento, ma in quello stesso istante, attraversa­to da una potente intuizione, capì che avrebbe vinto la sfida che l’altro gli imponeva. La terribile bellezza evocata da Michelange­lo sarebbe stata insopporta­bile agli uomini senza essere volta in grazia pacata dalla sua pittura. Se Michelange­lo evocava il tormento della passione, lui sapeva coglierne l’appagament­o nell’armonia di cui nessun uomo può fare a meno. La sua sarebbe stata la medicina alla terribile cura imposta da Michelange­lo allo spirito.

Guardò il ghigno di Michelange­lo e senza asciugarsi le lacrime si alzò per abbracciar­lo. «Michelange­lo, vai pure prima di me a Roma, non dovrai mai più avere paura della mia competizio­ne. Con il tempo capirai che c’è un desiderio di felicità a cui nessuno può rinunciare e che tu non potrai mai rappresent­are con la tua arte. Almeno fino a quando non ti sarai convinto che anche la felicità celebra la grazia di Dio». Così dicendo rimise nella borsa il disegno della giovane donna e risalì la scala da cui era disceso. Avrebbe ritardato di un giorno la partenza. Era quello il solo regalo che il terribile Michelange­lo avrebbe accettato da lui.

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ILLUSTRAZI­ONE DI MARCO CAZZATO

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