Corriere della Sera - La Lettura
Raccogliere più dati si può: c’è la legge
La democrazia lo prevede in emergenza ma tutela nello stesso tempo i diritti fondamentali
L’emergenza del Covid-19 impone una riflessione sul bilanciamento di diritti, libertà e doveri sociali, per la tutela della salute individuale e collettiva. Sia subito chiaro: i rischi spesso denunciati di un capitalismo della sorveglianza, incubato nelle nostre società aperte da certi usi delle tecnologie e da altre paure collettive (il terrorismo), rimangono in tutta la loro crudezza anche nell’emergenza. Proprio per questo, un esempio illustrativo di come si possa trovare un equilibrio è la privacy: non inutile orpello ma idoneo strumento di forza democratica e di efficienza, punto di partenza e non di arrivo per una democrazia dell’emergenza capace di differenziarsi da ogni dittatura o «democratura».
In una democrazia l’emergenza, inserita in un quadro di valori chiari e condivisi, è da intendere come una «normalità» temporaneamente diversa. Diversa dallo stato di emergenza con cui, invece, le dittature «giustificano» la compressione delle libertà che vuole ergersi a normalità. La nostra bella Costituzione, figlia di momenti estremi e lotte al totalitarismo, è ben cosciente della necessità di tutelare la democrazia, di contemperare libertà individuali ed esigenze sociali (articoli 2, 3, 4, 13-24), di bilanciare il diritto fondamentale alla salute quale interesse individuale e collettivo. Queste sono le basi con cui ogni prescrizione d’emergenza deve fare i conti. E li fa innanzitutto seguendo il vincolo della temporaneità di misure che limitano o stravolgono l’ordinario corso di diritti e libertà, sulla base della solidarietà, filo rosso di tutti i principi costituzionali.
Illuminante lo stravolgimento lessicale e fenomenologico del concetto originario di dittatura. Nel diritto romano la dittatura era un istituto d’emergenza che concentrava in un solo soggetto molti poteri altrimenti divisi, pur mantenendo alcune garanzie di controllo. Tale potere cessava una volta raggiunto lo scopo legato all’emergenza e comunque non durava più di sei mesi. La necessità comune di fronteggiare un rischio rendeva accettabili eccezionali limitazioni stabilendone la temporaneità e fondandole sulla consapevolezza che una comunità si regge con il sostegno reciproco. Un modello di gestione straordinario che è legittimo proprio perché previsto dal regime ordinario, cui poi si ritorna. Da qui il bilanciamento democratico tra protezione dei dati personali ed emergenza salute.
La mappatura della diffusione del virus appare la misura organizzativa più efficace per il contenimento. I dati personali costituiscono una risorsa inestimabile: portabilità, interoperabilità, riuso consentono il dialogo tra operatori. Ma va tutelata la riservatezza. A questo proposito il Regolamento generale sulla protezione dei dati (Reg. UE n. 2016/679, c.d. GDPR) è già bicefalo: assicura la libera circolazione dei dati personali, proteggendoli. «Tenere sotto controllo l’evoluzione di epidemie e la lo
ro diffusione» è tra i possibili trattamenti leciti cui il GDPR permette di applicare le misure tecniche e organizzative «ordinarie».
Lo stato di emergenza, dunque, non giustifica (né richiede) di non applicare il GDPR che pone vincoli necessari per la tenuta del sistema di valori. Non è un caso che il DL 14/2020 dedichi l’art. 14 al trattamento dei dati personali in una situazione di emergenza. E così:
a) autorizza al trattamento dei dati personali «sensibili» tutti coloro che sono necessari per la finalità emergenziale (ma solo loro!): protezione civile e medici in prima linea per esempio;
b) vincola la condivisione dei dati ai principi di minimizzazione, proporzionalità e limitazione delle finalità senza offrire scuse per una compressione indiscriminata dei diritti fondamentali;
c) semplifica i processi e apre l’interscambio di dati sensibili se «indispensabile» e senza creare un accesso indiscriminato, consapevole che il malato oggi non è interessato alla «futile privacy», ma lo sarà domani ed è compito di una democrazia pensarci oggi.
Così nella democrazia dell’emergenza diviene possibile mappare gli spostamenti pregressi del soggetto risultato positivo al tampone, ma una volta trascorso il «tempo di quarantena» è altrettanto corretto distruggere le informazioni superflue. Attenzione: ciò non significa distruzione di preziosi dati epidemiologici, significa garantire che queste informazioni non possano essere usate per violare diritti e libertà fondamentali del singolo. Queste possibilità mancano in ordinamenti non democratici. Rinunciarvi o banalizzarle significa rinunciare a marcarne la differenza. Affinché l’uso massiccio di dati personali, anche sanitari, resti un’opportunità, occorre valutare e mitigare i rischi di un trattamento improprio, attraverso le opportune misure tecniche e organizzative. Le eccezioni al sistema di pesi e contrappesi devono essere strumentali e proporzionate alla tutela del bene comune.
Si pensi al riconoscimento facciale implementato in Cina per monitorare e sorvegliare, incluso il rilevamento della temperatura corporea: il riconoscimento facciale è necessario e proporzionato? Da noi probabilmente lo sarebbe con le adeguate garanzie negli ospedali o negli snodi di trasporto. Ancora, «tracciare le persone infettate», come troppo genericamente suggerito sui social: a chi spetterebbe? Il fascicolo sanitario già esiste e ha le sue regole! Come dovrebbe avvenire, poi? Intercettandone la vita privata attraverso gli apparecchi collegati? Come evitare l’uso di informazioni superflue per finalità di linciaggio, fosse anche verbale, e di giustizia sommaria come nella peste descritta da Manzoni?
La democrazia dell’emergenza serve a rispondere a queste domande senza fare il breve passo di considerare la privacy una «fisima», minando alla radice diritti e libertà. Limiti e confini dell’uso dei dati personali vanno tracciati sin dall’inizio affinché — venuta meno l’esigenza di bilanciare la tutela dei dati con la tutela sanitaria collettiva — libertà e responsabilità tornino ad essere riequilibrate. Ciò è possibile se si crede nella democrazia anche nell’emergenza, se si ha la consapevolezza che tenere fermi i capisaldi della tutela dei diritti e delle libertà significa non cedere alle facili affermazioni che la relativa protezione sia un orpello rinunciabile in situazioni di emergenza. In democrazia lo straordinario è gestito dall’ordinario, consapevoli che la privacy non limita l’uso di ogni risorsa per tutelare la vita e la salute individuale e collettiva, ma al contrario lo rende possibile materialmente e lo legittima giuridicamente ed eticamente. Questa è la differenza tra l’uso dell’emergenza nei sistemi democratici e in quelli non democratici.
Nei primi la tutela dei diritti fondamentali permette una più ampia gestione dei dati personali anche nell’emergenza proprio perché preserva i valori costruendo un collante di fiducia e legittimità. Nei secondi l’emergenza diventa una scusa per comprimere diritti e libertà concentrando ancora di più il potere dei dati fuori da ogni garanzia.