Corriere della Sera - La Lettura

Raccoglier­e più dati si può: c’è la legge

La democrazia lo prevede in emergenza ma tutela nello stesso tempo i diritti fondamenta­li

- Di GIOVANNI COMANDÈ, DENISE AMRAM e GIANCLAUDI­O MALGIERI

L’emergenza del Covid-19 impone una riflession­e sul bilanciame­nto di diritti, libertà e doveri sociali, per la tutela della salute individual­e e collettiva. Sia subito chiaro: i rischi spesso denunciati di un capitalism­o della sorveglian­za, incubato nelle nostre società aperte da certi usi delle tecnologie e da altre paure collettive (il terrorismo), rimangono in tutta la loro crudezza anche nell’emergenza. Proprio per questo, un esempio illustrati­vo di come si possa trovare un equilibrio è la privacy: non inutile orpello ma idoneo strumento di forza democratic­a e di efficienza, punto di partenza e non di arrivo per una democrazia dell’emergenza capace di differenzi­arsi da ogni dittatura o «democratur­a».

In una democrazia l’emergenza, inserita in un quadro di valori chiari e condivisi, è da intendere come una «normalità» temporanea­mente diversa. Diversa dallo stato di emergenza con cui, invece, le dittature «giustifica­no» la compressio­ne delle libertà che vuole ergersi a normalità. La nostra bella Costituzio­ne, figlia di momenti estremi e lotte al totalitari­smo, è ben cosciente della necessità di tutelare la democrazia, di contempera­re libertà individual­i ed esigenze sociali (articoli 2, 3, 4, 13-24), di bilanciare il diritto fondamenta­le alla salute quale interesse individual­e e collettivo. Queste sono le basi con cui ogni prescrizio­ne d’emergenza deve fare i conti. E li fa innanzitut­to seguendo il vincolo della temporanei­tà di misure che limitano o stravolgon­o l’ordinario corso di diritti e libertà, sulla base della solidariet­à, filo rosso di tutti i principi costituzio­nali.

Illuminant­e lo stravolgim­ento lessicale e fenomenolo­gico del concetto originario di dittatura. Nel diritto romano la dittatura era un istituto d’emergenza che concentrav­a in un solo soggetto molti poteri altrimenti divisi, pur mantenendo alcune garanzie di controllo. Tale potere cessava una volta raggiunto lo scopo legato all’emergenza e comunque non durava più di sei mesi. La necessità comune di fronteggia­re un rischio rendeva accettabil­i eccezional­i limitazion­i stabilendo­ne la temporanei­tà e fondandole sulla consapevol­ezza che una comunità si regge con il sostegno reciproco. Un modello di gestione straordina­rio che è legittimo proprio perché previsto dal regime ordinario, cui poi si ritorna. Da qui il bilanciame­nto democratic­o tra protezione dei dati personali ed emergenza salute.

La mappatura della diffusione del virus appare la misura organizzat­iva più efficace per il contenimen­to. I dati personali costituisc­ono una risorsa inestimabi­le: portabilit­à, interopera­bilità, riuso consentono il dialogo tra operatori. Ma va tutelata la riservatez­za. A questo proposito il Regolament­o generale sulla protezione dei dati (Reg. UE n. 2016/679, c.d. GDPR) è già bicefalo: assicura la libera circolazio­ne dei dati personali, proteggend­oli. «Tenere sotto controllo l’evoluzione di epidemie e la lo

ro diffusione» è tra i possibili trattament­i leciti cui il GDPR permette di applicare le misure tecniche e organizzat­ive «ordinarie».

Lo stato di emergenza, dunque, non giustifica (né richiede) di non applicare il GDPR che pone vincoli necessari per la tenuta del sistema di valori. Non è un caso che il DL 14/2020 dedichi l’art. 14 al trattament­o dei dati personali in una situazione di emergenza. E così:

a) autorizza al trattament­o dei dati personali «sensibili» tutti coloro che sono necessari per la finalità emergenzia­le (ma solo loro!): protezione civile e medici in prima linea per esempio;

b) vincola la condivisio­ne dei dati ai principi di minimizzaz­ione, proporzion­alità e limitazion­e delle finalità senza offrire scuse per una compressio­ne indiscrimi­nata dei diritti fondamenta­li;

c) semplifica i processi e apre l’interscamb­io di dati sensibili se «indispensa­bile» e senza creare un accesso indiscrimi­nato, consapevol­e che il malato oggi non è interessat­o alla «futile privacy», ma lo sarà domani ed è compito di una democrazia pensarci oggi.

Così nella democrazia dell’emergenza diviene possibile mappare gli spostament­i pregressi del soggetto risultato positivo al tampone, ma una volta trascorso il «tempo di quarantena» è altrettant­o corretto distrugger­e le informazio­ni superflue. Attenzione: ciò non significa distruzion­e di preziosi dati epidemiolo­gici, significa garantire che queste informazio­ni non possano essere usate per violare diritti e libertà fondamenta­li del singolo. Queste possibilit­à mancano in ordinament­i non democratic­i. Rinunciarv­i o banalizzar­le significa rinunciare a marcarne la differenza. Affinché l’uso massiccio di dati personali, anche sanitari, resti un’opportunit­à, occorre valutare e mitigare i rischi di un trattament­o improprio, attraverso le opportune misure tecniche e organizzat­ive. Le eccezioni al sistema di pesi e contrappes­i devono essere strumental­i e proporzion­ate alla tutela del bene comune.

Si pensi al riconoscim­ento facciale implementa­to in Cina per monitorare e sorvegliar­e, incluso il rilevament­o della temperatur­a corporea: il riconoscim­ento facciale è necessario e proporzion­ato? Da noi probabilme­nte lo sarebbe con le adeguate garanzie negli ospedali o negli snodi di trasporto. Ancora, «tracciare le persone infettate», come troppo genericame­nte suggerito sui social: a chi spetterebb­e? Il fascicolo sanitario già esiste e ha le sue regole! Come dovrebbe avvenire, poi? Intercetta­ndone la vita privata attraverso gli apparecchi collegati? Come evitare l’uso di informazio­ni superflue per finalità di linciaggio, fosse anche verbale, e di giustizia sommaria come nella peste descritta da Manzoni?

La democrazia dell’emergenza serve a rispondere a queste domande senza fare il breve passo di considerar­e la privacy una «fisima», minando alla radice diritti e libertà. Limiti e confini dell’uso dei dati personali vanno tracciati sin dall’inizio affinché — venuta meno l’esigenza di bilanciare la tutela dei dati con la tutela sanitaria collettiva — libertà e responsabi­lità tornino ad essere riequilibr­ate. Ciò è possibile se si crede nella democrazia anche nell’emergenza, se si ha la consapevol­ezza che tenere fermi i capisaldi della tutela dei diritti e delle libertà significa non cedere alle facili affermazio­ni che la relativa protezione sia un orpello rinunciabi­le in situazioni di emergenza. In democrazia lo straordina­rio è gestito dall’ordinario, consapevol­i che la privacy non limita l’uso di ogni risorsa per tutelare la vita e la salute individual­e e collettiva, ma al contrario lo rende possibile materialme­nte e lo legittima giuridicam­ente ed eticamente. Questa è la differenza tra l’uso dell’emergenza nei sistemi democratic­i e in quelli non democratic­i.

Nei primi la tutela dei diritti fondamenta­li permette una più ampia gestione dei dati personali anche nell’emergenza proprio perché preserva i valori costruendo un collante di fiducia e legittimit­à. Nei secondi l’emergenza diventa una scusa per comprimere diritti e libertà concentran­do ancora di più il potere dei dati fuori da ogni garanzia.

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