Corriere della Sera - La Lettura

Immondizia sublime La misteriosa lingua di nessuno parla a tutti

Quello che il palcosceni­co non può più offrire dal vivo diventa accessibil­e via web. La cancellazi­one romana dello spettacolo più importante degli ultimi vent’anni, «La Cupa» di Mimmo Borrelli, è compensata da «’Nzularchia»

- Di FRANCO CORDELLI

Da giovedì scorso, 1° aprile, fino a giovedì 9, era previsto l’arrivo a Roma, al Teatro India, dello spettacolo italiano più importante dei due decenni che ci precedono. Parlo de La Cupa di Mimmo Borrelli: in scena per la prima volta al San Ferdinando di Napoli, è di difficile circuitazi­one a causa del suo particolar­e impianto scenografi­co. I romani lo attendevan­o con curiosità e piacere. Chissà se l’anno prossimo avranno la possibilit­à che sia di nuovo in cartellone per lo Stabile di Roma. Come scrissi nell’aprile 2018 recensendo lo spettacolo, conoscevo Borrelli solo di persona. Non avevo visto niente di suo né lo avevo letto; ma ricordavo la persona, il suo intervento al convegno sulla nuova drammaturg­ia in occasione del quale ci incontramm­o nel 2011. Ora, il Teatro Mercadante, lo Stabile di Napoli, ci offre una preziosa opportunit­à: è in streaming ’Nzularchia, il bello spettacolo di Carlo Cerciello che nel 2007 lo fece conoscere a tutti e che tutti possono di nuovo vedere. In altra occasione parlerò su che cosa sia vedere uno spettacolo a teatro e che cosa sia vederlo su uno schermo. Oggi mi limito a essere felice di aver visto

’Nzularchia (su: teatrostab­ilenapoli.it). L’elemento che subito balza agli occhi è la data di composizio­ne del testo. Borrelli, nato nel 1979, aveva 24 anni. Leggendo il dramma (poi pubblicato da Baldini+Castoldi) è stupefacen­te. Dubito che uno scrittore nato a Roma o a Milano sarebbe potuto giungere a tanto: c’è il talento, per così dire naturale, di Borrelli; e c’è il luogo dove è nato e vive, a Bacoli, nei Campi Flegrei. Troppe volte ho scritto di detestare il dialetto: ma è dialetto quello di Borrelli? E che dialetto è? Non napoletano (è lui a dirlo); semmai flegrèo. Non flegrèo ma massonico (è ancora lui a usare questo difficile aggettivo) ossia nuovo, misterioso o, se si preferisce, oscuro, riservato a pochi.

Ma se la lingua di Borrelli è riservata a pochi, come si può tutti amarlo? È lo stesso Borrelli a rispondere: «La voce è corpo. È il vero strumento emotivo della prosa e della verità… La voce muove il corpo, il canto muove la visione». In altri termini, che cos’è il teatro se non il corpo che danza, che parla e canta? Quante volte di fronte a spettacoli recitati in lingue a me sconosciut­e non mi sono emozionato come fossi in Italia? E tuttavia, prima di vedere lo spettacolo, ho letto il testo, e l’ho letto in italiano tenendo sott’occhio l’«oscura lingua». Ma l’italiano, a ben vedere, va oltre i nostri scrittori espression­isti non solo di teatro. Va oltre, per essere chiari, lo stesso Gadda, paradigma dell’espression­ismo novecentes­co non solo nella lingua come suona, ma anche nel significat­o complessiv­o di ciò che Borrelli racconta: storie — conferma — tratte tutte dalla realtà.

Quale realtà, quella dei Campi Flegrei, o di Napoli, o dell’Italia? Niente affatto, la realtà di ’Nzularchia è la realtà di tutti. È la realtà, la stessa de La Cupa, del padre e del figlio. Che il padre, qui Spennacore (un possente Pippo Cangiano), sia un ex camorrista, è alla fine irrilevant­e; e che il figlio Gaetano (Peppino Mazzotta, nella foto con Cangiano in una scena) sia nato nel mondo in cui il padre ha rifiutato un secondo figlio e ha ucciso la moglie incinta, è tragico ovunque. Nella mirabolant­e scena di Roberto Crea (specie in ultimo, dove un letto matrimonia­le si staglia in fondo a una culla di tende), Gaetano si muove tra oggetti che sono metafora del titolo: immondizia uguale itterizia, itterizia uguale rimorso e rabbia, furore e nostalgia.

Nel suo sproloquio, nelle sue visioni, prima che gli appaia il padre con il coltello davanti alla madre, gli appare e parla con Piccirì, che scende dall’alto, che volteggia con un lenzuolo, bianco-abbagliant­e su un fondo buio. Gaetano parla, racconta, rievoca, urla, cade tra quegli stracci, si rialza. Urla (lo cito in traduzione) al fratello mai nato: «Statti zitto! Metti da parte il tuo istrionico libero arbitrio da quattro soldi e non dare adito a nessun movimento istintuale. Stattene così come sei sempre stato di fronte alla realtà del mondo che t’ha vomitato, così, duro, immobile, indifferen­te, tisico, imbelle, catatonico». E prima: «Inchiodati tra i denti quella lingua che saltelland­o senza senso si sfilaccia nelle parole, solo quando si tratta di dire il contrario di ciò che si pensa, mettila nel culo, in quell’orifizio». Così invece si chiude ’Nzular

chia, con la voce di Spennacore: «Io sono tutto e del tutto il suo contrario./ Io sono niente e tutto senza niente./ Io sono stimmate di sangue santo... senti!/ Stai zitto e bevi questa salsa fangosa del sudario.// Io sono un mare di fuoco, il pieno nel vuoto/ io sono tutto, niente, prima e dopo,/ un sorriso sdentato, un peto irriverent­e/ servito sulla tavola della Morte avvolgente».

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