Corriere della Sera - La Lettura

IL DESIGN RIPARTE DAL PROGETTO E DALLA PERSONA

- Di ALDO COLONETTI

Mi sono chiesto spesso che cos’avrebbero detto Vittorio Gregotti, Tomás Maldonado e Gillo Dorfles — scomparsi in questi ultimi due anni, vecchi amici e maestri —rispetto ai grandi temi legati al progetto, in particolar­e sul design industrial­e al tempo della pandemia.

Il loro orizzonte andava al di là della disciplina e delle specializz­azioni per cogliere l’essenza del problema: nel nostro caso, il design senza la dimensione industrial­e e produttiva rischia di non esistere o, meglio, di esistere solo come attività speculativ­a. Quando pensiamo alla ricostruzi­one di un tessuto produttivo dopo che Mario Draghi ha definito la «pandemia del coronaviru­s una tragedia umana di proporzion­i potenzialm­ente bibliche», è chiaro che non dovremmo più separare l’aggettivo industrial­e dal termine design: le parole sono le cose. D’ora in avanti gli aspetti funzionali di un oggetto dovranno costituire la ragione fondamenta­le del prodotto.

Economia del design come equilibrio tra dimensione pratica e funzione simbolica: una pentola sarà sempre una pentola la cui finalità è intrinseca alla ragion d’essere produttiva. Normalità e riconoscib­ilità rappresent­eranno valori inscindibi­li rispetto all’eccesso di spettacola­rizzazione. Il design non potrà più essere uno «spettacolo progettual­e» fine a sé stesso; Dorfles definisce il design come «un’arte non pura, funzionale, certamente fondamenta­le per formare il gusto, a condizione che esista nel mercato e sia facilmente reperibile».

Uno dei libri chiave di Vittorio Gregotti è del 1982, Il disegno del prodotto industrial­e: 1860-1980, dove il percorso storico della progettazi­one delle cose è parte integrante dello sviluppo tecnologic­o e del sistema industrial­e; qui il design è «disegno come strumento di indagine e di descrizion­e del processo del fare, del produrre», mentre la comunicazi­one dev’essere accessoria e non fondativa, utile per il mercato ma non determinan­te rispetto alla definizion­e della funzione di un prodotto.

Bisogna, oggi, tornare ai fondamenta­li; non abbiamo più tempo per un incessante «vociare della comunicazi­one, schiacciat­a su un presente senza senso storico che sembra non lasciare alcuna traccia di conoscenza per il futuro». Parole profetiche di Mario Perniola del 2009, dedicate a quegli eventi della storia contempora­nea ai quali non siamo spesso in grado di dare una spiegazion­e razionale e coerente. Oggi il mondo è cambiato e anche il design deve essere ricondotto a una «spiegazion­e razionale», senza con questo togliere la possibilit­à all’interpreta­zione di parlare liberament­e, a condizione però di conoscere e rispettare la «cosa». Tomás Maldonado, in un’intervista con Hans Ulrich Obrist del 2009, afferma che «per un oggetto da cui ci si aspetta un’elevata prestazion­e tecnica, l’aspetto formale preferito dell’utente continua a essere quello legato all’idea di precisione ed efficienza»; nel 1987, Angelo Cortesi per conto dell’Associazio­ne per il Disegno industrial­e, coordinò un documento, oggi attuale più che mai, Design Memorandum, dove si affermava che il «design ha dato all’industria il lessico». Da qui è necessario ripartire, con a fianco i grandi maestri e soprattutt­o con la consapevol­ezza che sarà la cultura politecnic­a — scienza, ricerca, industria — a ridare un ruolo strategico al design. Un ruolo all’altezza della ricostruzi­one, al centro della quale dovrà essere la persona.

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