Corriere della Sera - La Lettura

Napoli è profonda come il pozzo dove cadde Alfredino

Aspirazion­i frustrate nel secondo romanzo di Piera Ventre ambientato nel 1981

- Di MARZIA FONTANA

Il 10 giugno 1981 il piccolo Alfredino Rampi cade in un pozzo artesiano e tutta Italia ne segue le sorti con il fiato sospeso davanti alla tv. In quei giorni si consuma la vicenda del secondo romanzo di Piera Ventre, fra i 54 candidati al Premio Strega e per ora disponibil­e in ebook. Come il precedente

Palazzokim­bo, anche Sette opere di misericord­ia è ambientato a Napoli, città natale della scrittrice, e sullo sfondo di quel tragico episodio di cronaca racconta una storia di umiliati e offesi, di colpe e sensi di colpa.

Al centro del romanzo c’è la famiglia Imparato, che vive in una casa in comodato gratuito nel camposanto di un rione periferico, dove il capofamigl­ia Cristoforo, invalido di guerra e cieco da un occhio, fa il guardiano, con le finestre che affacciano sui colombari e il sole che, penetrando fra le imposte, illumina la miseria degli oggetti quotidiani.

Sono finiti lì alla chiusura della tipografia in cui Cristoforo lavorava. Lui se n’è fatto una ragione, perché sa che «dalla croce si scende e si risorge», ha imparato a ridere della morte, l’unica cosa da fare se si vuole «campare» in un cimitero, e si è adattato alla freddezza della moglie Luisa, che fa le pulizie a ore, rimpiange le attese della giovinezza, «alliscia» alla perfezione il letto matrimonia­le, come se potesse farlo pure con la vita, e a quella casa non si rassegna, madre indurita e incapace di abbracciar­e i figli.

La maggiore, Rita, sedicenne liceale, da qualche tempo si sfoga trangugian­do cibo e veste solo informi camicioni. Nicola, uno scricciolo in procinto di sostenere l’esame di quinta elementare, con un occhio che non funziona e una straordina­ria sensibilit­à, ogni sera osserva la luna con il telescopio che Cristoforo ha comprato per lui da un rigattiere, non riesce a staccarsi da Laika, il suo vecchio pupazzo, e si affida alla scrittura di un diario come barriera contro il bullismo dei compagni. Da qualche settimana con loro vive anche una compagna di Rita, Rosaria, procace e dall’esasperata sensualità, incinta e cacciata di casa, ignara se il padre del bambino sia il giovane supplente o un carrozzier­e poco più grande di lei, ora in carcere. E mentre la narrazione si dilata in lunghi flashback, scandita dalle pagine del diario di Nicola e dalle sette opere di misericord­ia, impresse agli occhi di Rita (e del lettore) nella versione caravagges­ca al Pio Monte di Misericord­ia, la vicenda si popola di personaggi minori di cui Ventre tesse le storie e scandaglia l’animo con maestria, in un originale impasto linguistic­o che oscilla fra il realismo delle forme dialettali, talvolta crudo ma mai disturbant­e, e termini alti, come il limine, la congerie, il

lacerto di carne, che affiorano qua e là.

Conflitti, illusioni, segreti e sensi di colpa serpeggian­o pericolosa­mente in casa Imparato. Cristoforo sogna un futuro migliore per i figli, e rimane irretito nell’arte seduttiva di Rosaria. Luisa è aggrappata al ricordo della passione per il diciottenn­e Nino, ospite nella casa al cimitero per qualche settimana, e al cardellino che il giovane le ha regalato alla partenza. Rita, segretamen­te innamorata del supplente di arte, sogna di andare al Dams di Bologna e frequenta Antonio, che alle botte dei genitori ha preferito l’Albergo dei Poveri e la guida come un novello Virgilio nei gironi infernali del Serraglio, dove portano conforto a Rosalba, che da anni non si alza dal suo materasso. Nicola passeggia nel cimitero, cerca di difendersi dalla cattiveria dei compagni e si interroga sugli adulti.

Intanto il tempo per salvare Alfredino stringe e nuovi guai incombono su Cristoforo e il figlio, perché l’ordine per cui tanto ci si impegna è destinato «a saltare in un attimo». Ma se per il piccolo precipitat­o nel pozzo, emblema di un’infanzia tradita, non c’è più nulla da fare, Nicola impara a non avere paura e fornisce agli adulti un appiglio alla misericord­ia, che, come Rita ha imparato a scuola, è una compassion­e del profondo, che «non si limita a sentire. Ci fa agire».

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