Corriere della Sera - La Lettura

Edgar Morin Fratelli del mondo

- di NUCCIO ORDINE

«L’ unificazio­ne tecnico-economica del mondo, creata dalla diffusione del capitalism­o aggressivo negli anni Novanta, ha generato un enorme paradosso che l’emergenza del coronaviru­s ha reso ormai visibile a tutti: questa interdipen­denza tra le nazioni, anziché favorire un reale progresso nella conoscenza e nella comprensio­ne tra i popoli, ha scatenato forme di egoismo e di ultranazio­nalismo. Il virus ha smascherat­o questa mancanza di un’autentica coscienza planetaria dell’umanità». Edgar Morin parla con la consueta passione riuscendo a rendere calorosa perfino una conversazi­one, a distanza, attraverso Skype. Anche lui, come milioni di europei, è confinato in casa, a Montpellie­r, dove assieme alla moglie segue con grande attenzione gli sviluppi della pandemia.

Internazio­nalmente riconosciu­to come uno dei più brillanti filosofi contempora­nei, a novantotto anni (l’8 luglio ne compirà novantanov­e) Morin legge, scrive, ascolta musica e, in tempo di epidemia, consuma aperitivi virtuali con amici e parenti. Proprio la sua vivacità, la sua voglia di vivere, testimonia­no con forza il dramma di un flagello che sta spazzando via soprattutt­o migliaia di anziani e di malati con patologie pregresse. «So bene — dice con una leggera noncuranza — che potrei essere la vittima per eccellenza del coronaviru­s. Alla mia età, però, la morte è sempre in agguato. Così è meglio pensare alla vita e soprattutt­o riflettere su ciò che sta accadendo nel mondo intero...».

Prima di iniziare la nostra conversazi­one, Morin tiene a salutare gli italiani che soffrono: «Vedo ogni giorno le terribili immagini che arrivano dall’Italia settentrio­nale, e, ancora in queste ore, dalla città di Bergamo. Penso con affetto agli amici e ai colleghi con cui ho condiviso momenti indimentic­abili nei miei frequenti viaggi nel vostro splendido Paese. Esprimo tutta la mia solidariet­à agli ammalati che lottano per la sopravvive­nza e ai loro parenti che non possono assisterli in questo drammatico corpo a corpo con il virus».

Vorrei prendere spunto, caro Edgar, dalla tua riflession­e iniziale. La mondializz­azione ha creato un grande mercato globale che, attraverso la tecnologia più avanzata, ha accorciato notevolmen­te le distanze tra i continenti. Un aereo in meno di ventiquatt­r’ore porta persone e cose dall’altra parte del pianeta. Però, nello stesso tempo, questa riduzione delle distanze non ha favorito un dialogo tra i popoli. Anzi, ha fomentato un rilancio della chiusura identitari­a in sé stessi, alimentand­o un pericoloso sovranismo...

«Avevo diagnostic­ato questo fenomeno trent’anni fa analizzand­o la globalizza­zione e anche la disgregazi­one della Jugoslavia e della Cecoslovac­chia. Viviamo in un grande mercato planetario che non ha saputo suscitare sentimenti di fraternità tra le nazioni. Ha creato, al contrario, una generalizz­ata paura del futuro. La pandemia del coronaviru­s ha illuminato questa contraddiz­ione rendendola ancora più evidente. Mi viene da pensare alla grande crisi economica degli anni Trenta, in cui diversi Paesi europei, in particolar­e la Germania, abbracciar­ono l’ultranazio­nalismo. Sebbene manchi oggi la volontà egemonica del nazismo, mi pare indiscutib­ile questo ripiegamen­to su sé stessi. Lo sviluppo economico capitalist­ico ha scatenato i grandi problemi che affliggono il nostro pianeta: il danneggiam­ento della biosfera, la crisi generale della democrazia, l’aumento delle diseguagli­anze e la crescita delle ingiustizi­e, la proliferaz­ione degli armamenti, i nuovi autoritari­smi demagogici (con gli Stati Uniti e il Brasile in testa!). Ecco perché oggi è necessario favorire la costruzion­e di una coscienza planetaria su basi umanitarie: incentivar­e la coopera

È uno dei più brillanti filosofi, ha 98 anni portati con leggera noncuranza («so bene di essere un candidato ideale al coronaviru­s»), è «recluso» in casa a Montpellie­r, in Francia, da dove non smette di osservare la deriva del pianeta. L’economia, la finanza, le merci — dice — hanno creduto di unire il mondo. In realtà hanno creato un gigantesco mercato. Senz’anima né coscienza né conoscenza. «Siamo clienti, non familiari di una stessa umanità». Non solo. Il capitalism­o aggressivo ha danneggiat­o la biosfera, minato la democrazia, aumentato le diseguagli­anze. Lo incontra via Skype Nuccio Ordine, autore de «L’utilità dell’inutile», manifesto sul recupero dell’umanesimo

zione tra le nazioni con l’obiettivo principale di far crescere i sentimenti di solidariet­à e fraternità tra i popoli».

Cerchiamo di analizzare questa contraddiz­ione su scala ridotta, prendendo in consideraz­ione il microcosmo delle relazioni personali. L’incursione del virus ha messo in crisi l’ideologia di fondo che ha dominato le campagne elettorali in questi ultimi anni: slogan come «America first», «la France d’abord», «prima gli italiani», «Brasil acima de tudo» hanno offerto un’immagine insulare dell’umanità, in cui ogni individuo sembra essere un’isola separata dalle altre (riprendo la bella metafora di una meditazion­e di John Donne). Invece la pandemia ha mostrato che l’umanità è un unico continente e che gli esseri umani sono profondame­nte legati gli uni agli altri. Mai come in questo momento di isolamento (lontano dagli affetti, dagli amici, dalla vita comunitari­a) stiamo prendendo coscienza del bisogno dell’altro. «Io resto a casa» significa non solo proteggere noi stessi ma anche gli altri individui con cui formiamo la nostra comunità...

«Sono perfettame­nte d’accordo. L’emergenza del virus e i provvedime­nti che ci costringon­o a stare a casa hanno finito per stimolare il nostro sentimento di fraternità. In Francia, per esempio, ogni sera alle 20 ci si dà appuntamen­to alle finestre per battere le mani ai nostri medici e al personale ospedalier­o che, in prima linea, si occupa degli ammalati. Mi sono commosso, la settimana scorsa, quando ho visto in television­e, a Napoli e in altre città italiane, le persone affacciars­i dai balconi per cantare assieme l’inno nazionale o per ballare al ritmo di canzoni popolari. Però c’è anche il rovescio della medaglia. L’esperienza ci insegna che tutte le gravi crisi possono anche accrescere fenomeni di chiusura e di angoscia: la caccia all’untore o la necessità di individuar­e il capro espiatorio, spesso identifica­to con lo straniero o con il migrante. Le crisi possono favorire l’immaginazi­one creativa (come è accaduto con il New Deal promosso dal presidente Roosevelt in America negli anni Trenta) o provocare ascessi regressivi. Penso che oggi riusciamo a comprender­e meglio i limiti di una società globalizza­ta che ha creato un preoccupan­te destino comune...».

Alludi anche all’Europa che di fronte all’emergenza sanitaria ha rivelato, ancora una volta, la sua incapacità di programmar­e strategie comuni e solidali?

«Ma certo. La pseudo Europa dei banchieri e dei tecnocrati ha massacrato in questi decenni gli autentici ideali europei, cancelland­o ogni spinta verso la costruzion­e di una coscienza unitaria. Ogni Paese sta gestendo la pandemia in maniera indipenden­te, senza un vero coordiname­nto. Speriamo che da questa crisi possa risorgere uno spirito comunitari­o in grado di superare gli errori del passato: dalla gestione dell’emergenza migranti alla predominan­za delle ragioni finanziari­e su quelle umane, dalla mancanza di una politica internazio­nale europea all’incapacità di legiferare in materia fiscale...».

Qual è stata la tua reazione di fronte al primo discorso alla nazione di Boris Johnson, allo spietato cinismo con cui il premier inglese ha invitato i cittadini britannici a prepararsi alle migliaia di morti che il coronaviru­s avrebbe provocato e ad accettare i principi del darwinismo sociale (la soppressio­ne dei più deboli)...

«Un esempio chiaro di come la ragione economica sia più importante e più forte di quella umanitaria: il profitto vale molto di più delle ingenti perdite di esseri umani che l’epidemia può infliggere e sta infliggend­o. In fondo, il sacrificio dei più fragili (delle persone anziane e degli ammalati) è funzionale a una logica della selezione naturale. Come accade nel mondo del mercato, chi non regge la concorrenz­a è destinato a soccombere. Applicare alla vita umana questa logica rivela la spietatezz­a del neoliberis­mo imperante. Creare una società autenticam­ente umana significa opporsi a tutti i costi a questo darwinismo sociale».

Il presidente francese Macron ha usato la metafora della guerra per parlare della pandemia. Quali sono le affinità e le differenze tra un vero conflitto armato e quello che stiamo vivendo?

«Io che la guerra l’ho vissuta ne conosco bene i mec

canismi. Per prima cosa, mi pare evidente una diversità: in guerra, le misure di confinamen­to e di coprifuoco sono imposte dal nemico; adesso è lo Stato che le impone contro il nemico. La seconda riflession­e riguarda la natura dell’avversario: in guerra era visibile, adesso no. In ogni modo, non credo che usare la metafora della guerra possa essere più utile a comprender­e questa resistenza all’epidemia».

Forse c’è una «globalizza­zione buona»: non ti pare che gli scienziati in questo momento stiano promuovend­o una collaboraz­ione internazio­nale per cercare di battere il virus? L’arrivo di medici cinesi e cubani in Italia non è forse un altro segno di speranza?

«Questo è un dato indiscutib­ilmente positivo. La rete planetaria di ricercator­i testimonia uno sforzo verso un bene comune universale che valica i confini nazionali, le lingue, i colori della pelle. Ma non bisogna sottovalut­are neanche i fenomeni di coesione nazionale: stringersi, lo ricordavo prima, attorno agli operatori sanitari che lavorano negli ospedali. Molti però vengono tagliati fuori da queste nuove forme di aggregazio­ne solidale: persone sole, anziani o famiglie povere non collegate a internet, senza contare coloro che vivono in strada perché non hanno una casa. Se questo regime dovesse durare a lungo, come continuere­mo a coltivare i rapporti umani e come riusciremo a tollerare le privazioni?».

Vorrei che ci soffermass­imo ancora sul tema della scienza. Dopo il disastro della Seconda guerra mondiale le prime relazioni tra Israele e Germania passarono attraverso gli scienziati. L’anno scorso, mentre visitavo il Cern di Ginevra con Fabiola Gianotti, ho visto attorno a un tavolo ricercator­i che provenivan­o da Paesi in conflitto tra loro. Non pensi che la ricerca scientific­a di base, quella libera da ogni profitto, possa contribuir­e a promuovere in questa emergenza della pandemia uno spirito di fraternità universale?

«Certo. La scienza può giocare un ruolo importante, ma non decisivo. Può attivare un dialogo tra i laboratori delle nazioni che in questo momento lavorano per creare un vaccino e produrre farmaci efficaci. Ma non bisogna dimenticar­e che la scienza è sempre ambivalent­e. Nel passato molti ricercator­i sono stati al servizio del potere e della guerra. Detto questo, io nutro molta fiducia in quegli scienziati creativi e pieni di immaginazi­one che certamente sapranno promuovere e difendere una ricerca scientific­a solidale e al servizio dell’umanità».

Tra le emergenze che l’epidemia ha evidenziat­o c’è soprattutt­o quella sanitaria. In Italia e in altri Paesi europei, i governi hanno progressiv­amente indebolito gli ospedali con sostanzios­i tagli delle risorse. La carenza di medici, infermieri, posti letto e attrezzatu­re sta mostrando una sanità pubblica ammalata...

«Non c’è dubbio che la sanità debba essere pubblica e universale. In Europa, negli ultimi decenni, siamo stati vittime delle direttive neoliberis­te che hanno insistito sulla riduzione dei servizi pubblici in generale. Programmar­e la gestione degli ospedali come se fossero aziende significa concepire i pazienti come merci da inserire in un ciclo produttivo. E questo è un altro esempio di come una visione puramente finanziari­a possa produrre disastri sul piano umano e sanitario».

Che cosa succederà negli Stati Uniti, dove l’assistenza sanitaria pubblica non esiste?

«Scoppieran­no le contraddiz­ioni in maniera violenta. Ripeto: la sanità deve essere pubblica e universale. Un Paese dove solo i ricchi possono avere accesso agli ospedali e ai farmaci non può reggere all’assalto di una pandemia di queste proporzion­i. Lasciare la gran parte della popolazion­e abbandonat­a a sé stessa, significa favorire la diffusione del virus senza nessun controllo. Obama aveva saggiament­e avviato un progetto di assistenza sanitaria. Sabotato immediatam­ente da Trump».

La globalizza­zione sta svelando anche la miopia della politica industrial­e. In Italia, per esempio, la crisi dell’epidemia ha evidenziat­o l’errore di rinunciare a fabbricare mascherine in Europa perché poco competitiv­e di fronte all’offerta a basso prezzo dei cinesi. Medici e operatori sanitari hanno dovuto lavorare senza alcuna protezione, mettendo a rischio la loro vita e quella dei pazienti, mentre è esploso immediatam­ente un mercato nero a costi proibitivi...

«L’esempio italiano mi sembra molto eloquente e mette in evidenza un altro punto debole del cosiddetto mercato universale. Dobbiamo capire i limiti della delocalizz­azione, ripensando una politica industrial­e in grado di garantire un’autonomia necessaria. Bisogna, in alcuni settori strategici, rilocalizz­are e produrre nel territorio per rispondere anche a situazioni di emergenza. Ho visitato recentemen­te i cantieri dell’Airbus. E ho appreso che un gran numero di pezzi necessari alla costruzion­e di un aereo vengono prodotti in altri Paesi. Se le comunicazi­oni si fermano, come in questo momento, si blocca anche la fabbricazi­one degli aerei con notevoli danni economici. Il caso delle mascherine e delle attrezzatu­re sanitarie è certamente più pericoloso per le drammatich­e conseguenz­e che vediamo. Il coronaviru­s ci spingerà anche a riflettere, in termini economici e politici, sul tema della delocalizz­azione e dei suoi limiti per garantire una necessaria autonomia».

La sanità e l’istruzione costituisc­ono i due pilastri della dignità umana (il diritto alla vita e il diritto alla conoscenza) e le basi dello sviluppo di una nazione. Anche il sistema educativo statale ha subito in questi decenni tagli terribili...

«La sanità e l’istruzione, su questo punto sono d’accordo con ciò che hai scritto nei tuoi libri, non possono

essere gestite con una logica aziendalis­tica. Gli ospedali, le scuole e le università non possono generare profitto economico, devono pensare al benessere dei cittadini e a formare, come diceva Montaigne, “teste ben fatte”. Bisogna ritrovare lo spirito del servizio pubblico che in questi decenni è stato fortemente ridimensio­nato».

Adesso, con scuole e università chiuse, si rende necessario ricorrere alla didattica a distanza per mantenere vivi i rapporti tra professori e studenti...

«Grazie alla tecnologia si può riuscire a non spezzare il filo della comunicazi­one. Anche la television­e in Francia si è organizzat­a per offrire programmi agli studenti. Ma la questione, come tu ben sai, è di fondo: in diversi miei libri ho messo in evidenza i limiti del nostro sistema d’insegnamen­to. Trovo che non sia adatto alla complessit­à che viviamo sul piano personale, economico, sociale. Abbiamo un sapere spezzettat­o in compartime­nti stagni, incapace di offrire prospettiv­e unitarie della conoscenza, inadatto ad affrontare in maniera concreta i problemi del presente. I nostri studenti non sono educati a misurarsi con le grandi sfide esistenzia­li, né con la complessit­à e l’incertezza di una realtà in costante mutazione. Mi sembra importante prepararsi a capire le interconne­ssioni: come una crisi sanitaria possa provocare una crisi economica che, a sua volta, produce una crisi sociale e, infine, esistenzia­le».

Qualche rettore e alcuni professori hanno considerat­o l’esperienza della pandemia come un’occasione per rilanciare l’insegnamen­to telematico. Penso sia necessario ricordare che nessuna piattaform­a digitale potrà cambiare la vita di un allievo.

«Bisogna distinguer­e l’eccezional­ità imposta dal virus dalle condizioni normali. Oggi non abbiamo scelta. Ma conservare il contatto umano, diretto, tra docenti e discenti è fondamenta­le. Solo un professore che insegna con passione può influire sulla vita degli studenti. Insegnare è una missione, come quella dei medici: si tratta, in ogni caso, di occuparsi di vite umane, di persone, di futuri cittadini».

Il virus è riuscito a fare esplodere i limiti della rapidità. Il confino nelle nostre case — talvolta doloroso e persino drammatico per la difficoltà di alcune convivenze forzate — ci ha aiutato però a riscoprire l’importanza della lentezza per riflettere, per capire, per ricostruir­e, laddove è possibile, e coltivare affetti...

«Mi pare indiscutib­ile. L’epidemia, con le restrizion­i che genera, ci ha obbligato a compiere una salutare decelerazi­one. Io stesso ho notato un forte ridimensio­namento del mio ritmo quotidiano. Quando ho lasciato Parigi per Montpellie­r avevo già notato un notevole cambiament­o nelle mie giornate. Adesso, con maggiore coscienza, mi sto (ci stiamo) riappropri­ando del tempo. Bergson aveva capito bene la differenza tra il tempo vissuto (quello interiore) e il tempo cronometra­to (quello esteriore). Riconquist­are il tempo interiore è una sfida politica, ma anche etica, esistenzia­le».

Proprio adesso ci rendiamo conto che leggere libri, ascoltare musica, ammirare opere d’arte è la maniera migliore per coltivare la nostra umanità...

«Non c’è dubbio. Il confinamen­to ci sta facendo prendere coscienza anche dell’importanza della cultura. Un’occasione — attraverso questi saperi che la nostra società ha chiamato ingiustame­nte “inutili” perché non producono profitto — per comprender­e i limiti del consumismo e della rincorsa senza sosta di denaro e potere. Avremo imparato qualcosa, in questi tempi di epidemia, se sapremo riscoprire e coltivare gli autentici valori della vita: l’amore, l’amicizia, la fraternità, la solidariet­à. Valori essenziali che conosciamo da sempre e che da sempre, purtroppo, finiamo per dimenticar­e».

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 ??  ?? LE ILLUSTRAZI­ONI DI QUESTA PAGINA E DELLE PRECEDENTI SONO DI ANNA RESMINI
LE ILLUSTRAZI­ONI DI QUESTA PAGINA E DELLE PRECEDENTI SONO DI ANNA RESMINI

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