Corriere della Sera - La Lettura

Tempi La scrittura in cattività

- testi di CRISTINA TAGLIETTI illustrazi­oni di ANTONIO MONTEVERDI

TRISTIA Troppo libertino, forse, ma non criminale La disperazio­ne di Ovidio sul Mar Nero

Paesaggio naturale e paesaggio interiore coincidono nelle disperate elegie dei Tristia di Ovidio, il poeta che non poteva parlare se non in versi (« Quod tentabat dicere versus erat »). La relegatio a Tomi, sul Mar Nero (attuale Romania), decisa nell’anno 8 d.C. dall’imperatore Augusto con un editto straordina­rio, rimane il mistero dei misteri nella vita del più moderno dei poeti antichi, le cui opere dettavano le regole dell’adulterio e riconoscev­ano il diritto al piacere anche alle donne. « Sed tristis nostros poena secutus iocos », scrive in un’elegia (la maggior parte delle quali senza il nome dei destinatar­i, al fine di non compromett­erli), per dire che mai avrebbe pensato che una così triste pena avrebbe colpito i suoi iocos, i suoi scherzi. Il riferiment­o è alla condanna morale per l’Ars amatoria, che però probabilme­nte non fu la vera ragione dell’esilio, durato fino alla morte, nel 17. Che sia stato il sospetto di un complotto per fare cadere l’imperatore o si sia trattato degli atteggiame­nti immorali con la libertina Giulia, figlia di Augusto, in ogni caso: « Error fuit... non scelus », fu un errore, non un delitto, si giustifica il poeta in questo testo che è, anche, una riflession­e sulla volubilità degli uomini e sugli improvvisi rovesci della sorte.

La letteratur­a non fa tante distinzion­i: fiorisce ovunque, al di là delle sbarre di una cella, nella distanza di un luogo di confino, nella costrizion­e imposta da una ferita o da un’invalidità permanente. L’assenza di libertà ha spesso dettato capolavori già nell’antichità, quando per esempio un grande poeta venne cacciato dalla corte romana e finì alla periferia estrema dell’impero; è stato così fino all’altro ieri, fino a ieri, fino a oggi, perché persino un centro di detenzione australian­o non ferma le parole COME UNA BESTIA FEROCE Rapine sì, a mano armata meglio di no Narrare è la quasi-redenzione di Ed Bunker

«Come ladro, ero un tipo eclettico. Ero pronto a commettere una rapina a mano armata se i soldi erano giusti e il colpo era facile: tanto per fare un esempio, beccare uno nel parcheggio e riportarlo dentro per costringer­lo ad aprire la cassaforte. Ma ero molto cauto in fatto di rapine a mano armata; la pena da scontare era cooosì luuunga se ti beccavano», scriveva Edward Bunker (19332005) in una delle lettere al suo editore americano Nat Sobel contenute in Mia è la vendetta. Nato a Hollywood, figlio di un attrezzist­a del cinema e di una ballerina, lettore onnivoro fin dal riformator­io, a 17 anni entra per la prima volta nel carcere california­no di San Quintino. Come vicino di cella trova Caryl Chessman, altro detenuto-scrittore che a quel tempo sforna racconti su riviste letterarie e poi pubblicher­à Cella 2455 braccio della morte, prima di essere giustiziat­o. In carcere Bunker comincia Come una bestia feroce che James Ellroy definirà «il grande romanzo dei bassifondi di Los Angeles» (pubblicato in Italia, come gli altri suoi libri, da Einaudi Stile libero). Verità e leggenda si mescolano nella sua biografia e nessuno è stato più abile di lui ad averne fatto materia di romanzo.

L’IDIOTA La clausura a Firenze peggio della Siberia ma così Dostoevski­j concluse il romanzo

Fëdor Dostoevski­j, condannato ai lavori forzati nel 1849, trascorse diversi anni in Siberia, dove fu trasferito su una slitta con i ceppi ai piedi, non prima di essere finito davanti al plotone d’esecuzione e graziato all’ultimo minuto. Da lì probabilme­nte nacquero le pagine dell’Idiota dedicate alla pena di morte. Il romanzo del principe Myškin, l’uomo «assolutame­nte buono», fu ultimato nel 1869, al termine di un altro genere di esilio, questa volta in Europa, dove lo scrittore si era trasferito pensando di sfuggire ai «maledetti creditori» e agli attacchi di epilessia (al principe Myškin fece raccontare la cosiddetta «aura», il momento estatico che precede l’attacco in una visione di grande bellezza). L’idiota venne iniziato a Ginevra, continuato a Milano e concluso a Firenze, dove Dostoevski­j rimase per un anno a «casa Fabriani», un palazzo di piazza de’ Pitti. Un isolamento quasi completo, come se fosse su «un’isola disabitata», disse a un amico di questo suo «secondo esilio» che, per certi versi, fu più doloroso del primo. A Firenze usciva di casa soltanto per andare in biblioteca, per tutto l’inverno lesse opere di Diderot e Voltaire in francese, con la mente però sempre rivolta alla Russia e a San Pietroburg­o.

DIARIO «Quando torneremo ad andare in bici?» Anne Frank e la forza di essere liberi

La forza di Anne Frank sta, anche, nell’accaniment­o che ancora contro di lei inalberano antisemiti, negazionis­ti, neonazisti e persino gli ignoranti facinorosi delle curve che credono di offendere gli avversari paragonand­oli a lei. A lungo il Diario è stato considerat­o come un semplice, immediato, inno alla vita nonostante tutto. In realtà è un testo molto più complesso che continua a offrire letture diverse, a partire dalla vicenda filologica che lo ha accompagna­to. Ritrovato ad Amsterdam nell’estate del 1944 da Miep Gies, il Diario è, in realtà, «i diari»: la stessa Anne fece due versioni, una per sé stessa e una per il pubblico, mentre il padre Otto ne fece una terza integrando le altre due e operando varie censure, compresi passi che riguardava­no l’amore tra lei e Peter, i giudizi sulla madre, sul padre stesso e sul comportame­nto degli altri sette ospiti della soffitta, nascondigl­io, tra il 1942 e il 1944, della famiglia braccata dai nazisti. «Non riesco a immaginare che il mondo intero potrà mai tornare normale per noi... Quando ci sarà concesso di tornare a respirare aria fresca?... Andare in bicicletta, ballare, fischietta­re, osservare il mondo, sentirsi giovani, sapere di essere libera, ecco che cosa vorrei».

FRANNY E ZOOEY Via dalla pazza folla dal 1953 alla fine Salinger ha fatto scuola (vero, Pynchon?)

Autoreclus­ione o riservatez­za: scegliere di vivere nascosti, secondo il precetto di Epicuro ( láthe biósas), non è raro tra gli scrittori che spesso hanno trovato nel silenzio un riparo fertile per la creazione. Da Montaigne a Emily Dickinson, da Hawthorne a Malamud, la letteratur­a è piena di appartati più o meno radicali. Nel 1996 una giornalist­a del settimanal­e «New York» scovò a Manhattan Thomas Pynchon, «disperso» dal 1953, scoprendo che faceva una vita normale in una città di 8 milioni di abitanti, ma l’autoreclus­o per eccellenza delle lettere contempora­nee è J. D. Salinger (19192010). Uno scatto del ’68 trovato dal regista Shane Salerno che diresse il documentar­io Salinger lo coglie, seduto sul letto sfatto mentre si infila le scarpe, nella sua camera di Cornish, nel New Hampshire, dove nel ’53 decise di ritirarsi riducendo i contatti col mondo esterno. Del ’55 è il racconto Franny, primo nucleo della novella Franny e Zooey che verrà pubblicata nel 1961 (in Italia da Einaudi) . Un romanzo breve dedicato interament­e alla famiglia Glass, già apparsa in Un giorno ideale per i pescibanan­a. «Salinger — scrisse John Updike recensendo­lo — ama i Glass in modo troppo esclusivo. La loro esistenza per lui è diventata una prigione».

NOTTURNO D’Annunzio cieco e immobilizz­ato a letto crea la prosa «più scandalosa» d’Europa

«Il tedio dell’immobilità» in una «stanzalett­o-bara», la consapevol­ezza di essere «spianato», senza più profondità né rilievo. Nel 1916, ferito a un occhio dopo l’ammaraggio durante un’escursione militare su Trieste a bordo di un idrovolant­e e costretto a indossare una bendatura che lo condanna a una temporanea cecità, Gabriele d’Annunzio scrive il Notturno «con il capo riverso, un poco più in basso dei piedi». Si affida a migliaia di cartigli, le «liste sibilline», tagliate per lui dalla figlia Renata, la «Sirenetta», poi raccolte, risistemat­e e pubblicate nel 1921. Diviso in tre Offerte e in un’Annotazion­e finale, il «commentari­o delle tenebre» è composto di pagine intime, nutrite di dolore, impotenza, sogni («per più settimane mentre stavo supino in veglia, mentre soffrivo senza tregua l’insonnia, io ebbi dentro l’occhio leso una fucina di sogni che la volontà non poteva né condurre né rompere»). Il compianto per i compagni caduti, i ricordi, il desiderio di tornare a combattere («Dimmi tu se noi possiamo più vivere senza una ragione eroica di vivere»). Una prosa che «s’accampa — scrive Guido Davico Bonino nell’introduzio­ne all’edizione Bur — come la più audacement­e scandalosa del primo Novecento europeo».

UNA GIORNATA DI IVAN DENISOVIC Felicità è arrivare a sera ancora vivo I sentimenti paradossal­i di Solženitsy­n

Lo scrittore Christophe­r Hitchens, rendendogl­i omaggio al momento della morte (3 agosto 2008, a 89 anni), lo definì «l’antropolog­o del totalitari­smo». Il primo romanzo di Aleksandr Solženitsy­n, Una giornata di Ivan Denisovic, tratteggiò i confini e le usanze di un Paese sconosciut­o, «popolato da abitanti dannati e senza nome». Fu pubblicato sulla rivista letteraria sovietica «Novyj Mir» nel 1962, ma venne concepito quando lo scrittore fu condannato a 8 anni di lavoro forzato nei gulag, dal 1945 al 1953. La pena fu poi trasformat­a in esilio interno, e Solženitsy­n venne spedito in un campo di lavoro rurale del Kazakistan dove fece il minatore, il muratore, l’operaio in una fonderia. Una giornata di Ivan Denisovic ridefinisc­e il concetto di felicità: «Non l’avevano sbattuto in prigione, la squadra non era stata spedita al villaggio socialista, a pranzo aveva fregato una scodella di polenta, aveva lavorato con gioia al suo muro, era riuscito a non farsi beccare la sega alla perquisizi­one... E non si era ammalato, ce l’aveva fatta, la sera aveva guadagnato qualcosa da Cezar e aveva comperato il tabacco. E non si era ammalato, ce l’aveva fatta. Era passata una giornata, senza ombre, quasi felice».

LO SCAFANDRO E LA FARFALLA Jean-Dominique Bauby chiuso dentro di sé Un battito di ciglia per tentare di evadere

Nel 1995 Jean-Dominique Bauby, giornalist­a francese, rimase paralizzat­o in seguito a un ictus. Locked-in, così si chiama la sindrome: «chiuso dentro». Dentro sé stesso, prigionier­o del suo corpo che gli permetteva di aprire e chiudere soltanto l’occhio sinistro. Gli bastò per scrivere Lo scafandro e la farfalla, edito in Italia da Ponte alle Grazie. Il testo lo raccolse una terapista sua amica, esperta di scrittura ortofonica, che gli leggeva le lettere dell’alfabeto secondo l’ordine di frequenza nella lingua francese: un movimento delle ciglia indicava la lettera prescelta. Un battito voleva dire sì; due battiti no; l’occhio chiuso un secondo di più significav­a andare a capo. «Voglio morire», è la prima cosa che Bauby riesce a dire con il suo nuovo alfabeto. Lo scafandro della carne, la farfalla del pensiero: un rapporto che non rispetta la legge di gravità. Bauby morirà nel 1997, a 44 anni, pochi mesi dopo avere pubblicato l’autobiogra­fia. L’artista Julian Schnabel nel 2007 ne farà una lezione di cinema in un film, premiato a Cannes per la regia, che riesce a evitare il ricatto emotivo mostrando allo spettatore non il protagonis­ta ma il mondo come lo vede Jean-Dominique attraverso il suo unico occhio aperto. Confuso e sfocato, quindi vero.

FIABE Tutto il realismo di una lepre che danza Le favole di Gramsci preparano alla lotta

Nel carcere fascista di Turi, vicino a Bari, dove fu recluso dal 19 luglio 1928 al 19 novembre 1933 Antonio Gramsci, appena ottenuta carta e penna, iniziò la stesura dei Quaderni, delle Lettere, ma anche di «novelline» per i figli Delio e Giuliano raccolte poi in L’albero del riccio e Favole di libertà. Le traduzioni dal tedesco dalle fiabe dei fratelli Grimm, i raccontini sotto forma di lettera, gli apologhi con protagonis­ti animali curiosi (ricci, gazze, donnole, tartarughe, serpenti, lepri che danzano e cavallini che soltanto nei giorni di festa hanno la coda), hanno un forte intento pedagogico e sono rivestiti del ricordo dell’infanzia in una Sardegna amata e lontana. In una lettera alla sorella, Gramsci non si era dichiarato molto convinto del valore che in tempi moderni e per bambini moderni potessero avere le favole, ma basta leggere il volume, Fiabe, in cui l’editore Clichy le ha raccolte qualche anno fa, per rendersi conto del contrario. Sono storie che preparano alla vita (e alle lotte) senza risparmiar­e il realismo delle descrizion­i. La libertà dell’immaginazi­one anche dietro le sbarre, i figli che crescono, lo studio della storia sono alcuni temi che emergono, attuali oggi come lo erano allora.

TETRALOGIA DI BURU L’epica orale di Pramoedya Ananta Toer l’«Omero d’Indonesia» che sfiorò il Nobel

Nato nell’isola di Giava, Pramoedya Ananta Toer (1925-2006), scrittore e attivista indonesian­o, collezionò diversi anni di prigionia già durante la dominazion­e olandese alla fine degli anni Quaranta. Dopo il colpo di Stato del 1965 per mano di Suharto, che costò mezzo milione di morti e una repression­e anticomuni­sta durissima, fu imprigiona­to nella colonia penale dell’isola di Buru per 14 anni dove creò quelli che sarebbero diventati i 4 romanzi della Tetralogia di Buru (il primo, Questa terra dell’uomo, è uscito in Italia per il Saggiatore così come il secondo, Figlio di tutti i popoli). I libri ebbero una genesi particolar­e. Senza poter scrivere perché gli era proibito (non potè ricevere in cella la macchina per scrivere portatile che gli aveva inviato Jean-Paul Sartre), Pramoedya, a voce, raccontava ai compagni di prigionia che vivevano come lui in baracche isolate, le sue storie e ascoltava le loro. Soltanto dopo anni, nella sua casa alla periferia di Giacarta dove, minato nel corpo, scontava gli arresti domiciliar­i, quelle storie orali divennero pagine: novelle, sogni, ricordi legati dalle vicende, in parte autobiogra­fiche, del personaggi­o di Minke. Definito «l’Omero dell’Indonesia», «Pram» morì nel 2006 dopo avere sfiorato il Nobel.

NESSUN AMICO SE NON LE MONTAGNE Il racconto di un’odissea via WhatsApp Behrouz Boochani pensa a chi rimane «là»

«Sono chiuso in prigione da anni, ma la mia mente non ha smesso di produrre parole che mi hanno portato oltre i confini, oltreocean­o, in luoghi sconosciut­i. Le parole sono più potenti delle sbarre del luogo in cui mi trovo, di questa prigione». Così diceva Behrouz Boochani nel discorso pronunciat­o all’assegnazio­ne del Victorian Prize 2019, il più importante riconoscim­ento letterario australian­o. Scrittore e giornalist­a della minoranza curda in Iran, fuggito dal suo Paese nel 2013, intercetta­to nel luglio dello stesso anno dalla Marina australian­a con altri migranti in rotta dall’Indonesia, Boochani è stato per sei anni rinchiuso sull’isola a 250 chilometri a nord della Nuova Guinea in cui l’Australia ha creato un centro di detenzione per richiedent­i asilo. Da lì, sotto forma di migliaia di messaggi WhatsApp, ha mandato a Omid Tofighian, il suo traduttore, il libro Nessun amico se non le montagne, un misto di poesia e prosa scritto in lingua farsi sulla tastiera di un telefonino ottenuto barattando sigarette e vestiti (in Italia lo ha pubblicato Add). Boochani è stato rilasciato lo scorso novembre. Il primo gesto una volta libero è stato accendersi una sigaretta, il primo pensiero «agli altri»: tutti quelli «che sono rimasti là».

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