Corriere della Sera - La Lettura
L’Unione crollerà se non sostiene i Paesi più deboli
La crisi del coronavirus ha improvvisamente riaperto l’annosa controversia sulla solidarietà fra Paesi all’interno dell’Unione Europea. Come dieci anni fa, quando scoppiò la crisi del debito sovrano, la sfida a cui rispondere è un’emergenza paneuropea. Allora si temeva che il contagio finanziario si espandesse da Sud a Nord. Oggi tutti i Paesi sono contagiati dal coronavirus: il rischio è comune, nessun Paese è piu «colpevole» di altri. Eppure è riapparsa la frattura tra «frugali» e «spendaccioni», la retorica dei santi e dei peccatori. Così la Ue sta entrando di nuovo in una crisi esistenziale. Su questi temi abbiamo dialogato con quattro noti studiosi degli aspetti sociali dell’integrazione europea, che avario titolo hanno collaborato negli ultimi dieci anni con le istituzioni comunitarie: il tedesco Martin Seeleib-Kaiser dell’Università di Tubinga; l’ungherese László Andor, ex commissario Ue per l’Occupazione e gli affari sociali; Frank Vandenbroucke dell’Università di Amsterdam, ex ministro del governo belga; la belga Bea Cantillon dell’Università di Anversa. MAURIZIO FERRERA — Iniziamo con il quadro generale. Quanto è grave l’emergenza Covid-19 sotto il profilo politico?
MARTIN SEELEIB-KAISER — Questa crisi può portare a una rottura dell’Ue. Anche senza accordo sugli eurobond, c’è il bisogno urgente di costruire ponti tra le diverse posizioni e arrivare a un compromesso politico, in modo da fornire un aiuto quasi automatico agli Stati membri che necessitano di assistenza.
LÁSZLÓ ANDOR — In realtà, la Ue si è già rotta con la Brexit. Oggi non è l’Unione a rischiare la disgregazione, bensì la moneta unica. Ai Paesi del Sud sono stati richiesti molti sacrifici per salvaguardare l’euro. Se l’attuale crisi non basta per arrivare alla condivisione dei rischi, non ci sarà più un buon motivo per mantenere in vita l’Unione monetaria. Non è una storia nuova, ma una nuova puntata di una storia vecchia. Nel 2012 e di nuovo nel 2015 eravamo molto vicini a una rottura. Quando la Grecia stava affrontando il terzo programma di assistenza, il governo di Atene decise di restare nell’eurozona non perché improvvisamente si convertì alla logica della troika, ma perché uscire dall’euro avrebbe richiesto il passaggio a un’economia di guerra (nazionalizzazioni, stringenti controlli finanziari, regolamentazione dei prezzi, razionamenti e così via) con costi politici molto elevati. Oggi è la crisi Covid-19 a spingere la maggior parte dei Paesi verso l’economia di guerra, quindi il costo politico della scelta di lasciare l’euro e ripristinare le valute nazionali sarebbe ben inferiore.
BEA CANTILLON — Ciò che sta accadendo ora è spregevole non solo per le sue implicazioni sociali ed economiche, ma soprattutto per ragioni etiche. La mancanza di solidarietà è una vergognosa beffa di tutti i grandi principi sanciti dai Trattati. Il mio Paese, il Belgio, ha persino rifiutato di votare a favore del modesto programma Ue, 37 miliardi, per fornire aiuti di emergenza ai Paesi più poveri. Tutto questo è molto triste, ma resto fiduciosa. Seppur lentamente sta emergendo la consapevolezza che la condivisione dei rischi è una necessità. Per tutti, non solo per i Paesi più colpiti. E se non riusciremo a proteggere le vittime di questa crisi, l’intero sistema crollerà.
FRANK VANDENBROUCKE — O la Ue sarà in grado di organizzare forme tangibili di solidarietà o la sua stessa ragion d’essere verrà meno. Oggi la solidarietà prevede un «soccorso d’emergenza» su larga scala. I trattati europei non solo lo rendono possibile, ma lo richiedono espressamente. L’articolo 222 del Trattato sul funzionamento della Ue prevede che l’Unione agisca congiuntamente in uno spirito di solidarietà se uno Stato membro è vittima di una catastrofe e l’articolo 122 dello stesso Trattato prevede che in questi casi venga fornita assistenza finanziaria. Non vi è automaticità né un metodo predeterminato di attuazione.
Ma, se è presente la volontà politica, non c’è carenza di strumenti a disposizione, anche per mettere in comune risorse di bilancio.
MAURIZIO FERRERA — Sì, ma il problema è che cosa e come fare.
MARTIN SEELEIB-KAISER — Io ho in mente una proposta concreta: la costituzione di un Fondo di solidarietà per combattere le emergenze. Su richiesta di tre (o più) Stati membri, la Commissione dovrebbe dichiarare lo stato di emergenza europea. A questo punto la Bce dovrebbe attivare un veicolo finanziario in grado di erogare agli Stati membri tutto l’aiuto necessario (fino al 10 per cento del loro Pil) tramite la Commissione. Tali somme dovrebbero essere utilizzate per gli aiuti emergenziali, la sanità pubblica e misure di assistenza in denaro o in natura a livello locale. Gli Stati in disaccordo potrebbero bloccare il meccanismo a maggioranza qualificata entro un massimo di dieci giorni dalla dichiarazione dello stato di emergenza. MAURIZIO FERRERA — L’impatto simbolico di un tale schema sarebbe enorme. Una vera rottura con il predominio di quel principio dell’ «azzardo morale» che nell’ultimo decennio ha amplificato la sfiducia e i sospetti reciproci fra Paesi, in base al presupposto che l’opportunismo e gli imbrogli siano il fattore trainante dei governi nazionali, specialmente quelli del Sud. Come si fa a costruire una comunità politica su questa base? È chiaro che se il punto di partenza è questo, la Ue si riduce a essere un’organizzazione sanzionatoria, tutta orientata a controllare ciò che accade al proprio interno e basta. Lo strumento che tu proponi, altamente visibile, potrebbe trasformare la corona-crisi in una «opportunità morale» per risolidarizzare e rilegittimare il progetto europeo dopo l’ultimo «decennio orribile». La tua proposta è anche molto ambiziosa, forse non siamo ancora pronti per cifre così imponenti.
FRANK VANDENBROUCKE — Io non credo che la risposta possa basarsi su un unico grande schema. Servono strumenti diversi capaci di operare in parallelo. La Bce è attrezzata a gestire i rischi finanziari, ma non a intraprendere operazioni di sostegno fiscale su larga scala. Come elemento di una simile operazione, la nuova iniziativa della Commissione denominata «Sure» va nella giusta direzione: il suo scopo è quello di sostenere gli schemi tipo la cassa integrazione italiana, che proteggono l’occupazione esistente. Da tempo gli esperti dicono che l’Eurozona ha bisogno di uno schema comune contro la disoccupazione. «Sure» è volta ad «assicurare il lavoro» piuttosto che il reddito dei disoccupati. È chiaro che oggi salvaguardare i livelli occupazionali è una priorità assoluta. Ma a regime la Ue deve anche dotarsi di una riassicurazione dei regimi nazionali di tutela per la disoccupazione. E dovrebbe trattarsi di uno schema veramente automatico in risposta a gravi choc nazionali. I mercati non devono dubitare del sostegno europeo in questi casi. Ci sono già alcune proposte su questo fronte, ma bisogna accelerare. Infine, l’Ue dovrebbe essere dotata di una struttura centralizzata per l’approvvigionamento di attrezzature sanitarie in caso di grave epidemia o pandemia.
BEA CANTILLON — Al sistema di riassicurazione della disoccupazione aggiungerei una garanzia di reddito minimo. Il recupero dal Covid-19 sarà lento, la sofferenza potrebbe durare a lungo. Gli Stati membri hanno bisogno di sostegno nei loro sforzi per garantire una vita dignitosa per tutti e un accesso effettivo ai beni e servizi essenziali. Appoggio anche l’idea di Vandenbroucke circa un sistema centralizzato non solo per l’approvvigionamento, ma anche per la collaborazione nelle cure ospedaliere, in particolare nelle cure intensive. È necessario fare scorta di respiratori e maschere al più presto. Ma per moltissimi nostri cittadini ormai è troppo tardi. Per un bergamasco che ha perso un familiare a causa della mancanza di respiratori (e che è sofferente, ma anche giustamente arrabbiato) sentire parlare di uno schema futuro non offre ora alcun conforto. Ora questo cittadino ha bisogno di una prospettiva, deve sentire e vedere la presenza tangibile di quell’Europa in cui lui e tutti i suoi concittadini italiani hanno nel tempo riposto la propria fiducia più di ogni altro popolo in Europa. Un programma di aiuti consistenti è urgente affinché i cittadini europei più colpiti e più vulnerabili possano
riprendere in mano con fiducia le fila delle proprie vite. Questo programma dev’essere molto facile da attuare (vale a dire solo soggetto a due condizioni: capacità economica del Paese colpito e impatto dell’epidemia, misurato dal numero di decessi) e deve essere comprensibile dalla gente comune. La sua adozione deve fare appello alla solidarietà di tutti i cittadini europei, sulla scia del pesante bilancio emotivo della crisi. Poiché nessuno sa come gestire la ripresa economica, non è né necessario né ragionevole definire condizioni predeterminate che disciplinano l’uso nazionale dei fondi ricevuti.
MAURIZIO FERRERA — Insomma, per una volta pensiamo ad aiutare rapidamente le persone che soffrono qui ed ora e non ai possibili peccati futuri dei loro governi. L’Europa è anche una Unione di cittadini, non solo di Stati. Sennò non avremmo creato un Parlamento a elezione diretta né la cittadinanza dell’Ue.
LÁSZLÓ ANDOR — Ricordiamo il motivo per cui si litiga sui coronabond/eurobond. Non è perché i costi sanitari diretti siano enormi, ma perché lo saranno quelli indiretti. Per salvare i gruppi più vulnerabili della società, i governi stanno bloccando le loro economie, aumentando i loro deficit e dunque i debiti pubblici. Un Paese come l’Italia potrebbe avvicinarsi al default, se avesse difficoltà a ottenere prestiti dai mercati. D’altra parte è comprensibile che questo Paese non accetti la condizionalità su eventuali prestiti del Meccanismo europeo di stabilità (Mes), perché sarebbe dettata da quei ministri europei che finora sono riusciti solo a reagire con insulti alle aspettative italiane di solidarietà europea. L’Italia è ancora la terza più grande economia dell’area euro e il rischio di un contagio a domino sarà molto maggiore rispetto a cinque anni fa con la Grecia. L’unico modo ragionevole di procedere è arrivare alla reale condivisione dei rischi, anche se in alcuni Paesi sembra una lotta tutta in salita. MARTIN SEELEIB-KAISER — Qualunque sia lo strumento di condivisione, penso che dovrebbe essere accessibile anche agli Stati membri che non fanno ancora parte dell’area euro, a condizione che la banca centrale nazionale garantisca l’ipotetica quota da conferire alla Bce.
LÁSZLÓ ANDOR — Se la condivisione del rischio è impossibile, l’Ue dovrebbe trovare un diverso equilibrio e forse considerare un ritorno alle valute nazionali.
MAURIZIO FERRERA — Un rischio che preferirei non evocare del tutto. In un interessante libro del 2009, A Paradise Bu
ilt in Hell (Viking Press), la studiosa americana Rebecca Solnit ha spiegato come in certi casi i disastri possano indurre le comunità politiche a «costruire il paradiso mentre si sta nell’inferno». Non possiamo certo aspettarci così tanto. Basterebbe uscire dall’inferno restando uniti, in spirito di solidarietà, come tutti ci siamo impegnati a fare nei Trattati.
Cinque esperti di politiche sociali esaminano i rischi dell’emergenza in corso. Ancora più che durante la passata crisi del debito sovrano, è in forse il destino della moneta unica, perché oggi il passaggio a un’economia di
guerra è nei fatti, quindi il costo del ritorno alle valute
nazionali sarebbe inferiore. Servono iniziative comuni
che consentano di tutelare i cittadini che si sentono abbandonati. Porre per gli aiuti condizioni pesanti, basate sulla sfiducia verso i partner più indebitati, significa minare l’intera costruzione comunitaria