Corriere della Sera - La Lettura

Cercasi leader capaci di decidere

- Conversazi­one tra GIANFRANCO PASQUINO e MARCO TARCHI a cura di ANTONIO CARIOTI

Tra le molte incognite della pandemia in corso ci sono le conseguenz­e che essa avrà sul futuro dei sistemi democratic­i. Ne abbiamo discusso con due studiosi di Scienza politica: Gianfranco Pasquino, professore emerito dell’Università di Bologna, e Marco Tarchi, che insegna all’Università di Firenze.

I Paesi occidental­i hanno reagito in modo tardivo e incoerente alla crisi del Covid-19. Dunque le democrazie faticano ad affrontare le emergenze?

GIANFRANCO PASQUINO — I tanti Paesi colpiti hanno risposto in modo eterogeneo, con differenze evidenti non solo tra le varie democrazie, ma anche tra i regimi di altro tipo. Non imputerei alla struttura democratic­a in quanto tale una gestione inefficace, perché anche il governo autoritari­o dell’Iran non ha certo brillato. E in Cina all’inizio il contagio è stato nascosto. Il problema vero è la qualità delle classi dirigenti. Donald Trump, che all’inizio aveva negato il problema, ha dovuto fare marcia indietro, mentre il governo tedesco si è comportato molto meglio.

MARCO TARCHI — Anch’io non credo che i deficit d’intervento dipendano da tratti specifici delle democrazie. Credo però che alcune loro caratteris­tiche abbiano pesato. Le democrazie si basano sulla competizio­ne per il consenso tra forze antagonist­e: rispetto a sistemi fondati sull’unitarietà del comando, sono quindi meno attrezzate a reagire con immediatez­za di fronte a situazioni eccezional­i, perché si scatena la spinta dei vari soggetti a differenzi­arsi dai rivali per guadagnare voti. Tutto ciò provoca polemiche ed esige mediazioni che rallentano le procedure decisional­i.

I Paesi asiatici, democratic­i (Corea del Sud), semi-autoritari (Singapore) o autoritari (Cina), sembrano avere operato meglio di quelli occidental­i. Come mai?

GIANFRANCO PASQUINO — In fondo però anche l’Iran si trova in Asia. Meglio guardarsi dalle generalizz­azioni e considerar­e gli assetti istituzion­ali. Corea del Sud, Taiwan e Giappone sono tre democrazie che se la stanno cavando piuttosto bene. Quanto a Singapore, è un Paese piccolo, certamente retto da un regime autoritari­o, ma avanzato nei campi che contano. Ha un alto tasso d’istruzione, un reddito medio elevato, un’economia tecnologic­amente sofisticat­a e una grande capacità di controllar­e i comportame­nti individual­i. Ma io credo che sia anche un Paese sull’orlo della democrazia, destinato ad adottarla in tempi non lunghi. Diverso il caso della Cina, il cui sistema mi pare più totalitari­o che autoritari­o, visto che il Partito comunista è una macchina di potere onnipervas­iva. Ma la risposta di Pechino è stata inadeguata: il virus è sorto sul suo territorio, il medico che lo aveva individuat­o è stato messo a tacere, la notizia è stata taciuta per un mese con ricadute pesanti. La Cina non può ergersi a modello.

MARCO TARCHI — Nel giudicare le società asiatiche si deve tenere conto non solo delle istituzion­i, ma anche della cultura politica. Paesi come Giappone e Corea del Sud, nonostante la modernizza­zione spinta, hanno mantenuto una visione del rapporto tra individuo e collettivi­tà diversa da quella che si è imposta in Occidente. Sono democrazie a pie

no titolo, ma non pervase dallo spirito ideologico dell’individual­ismo liberale. Presentano invece una predisposi­zione ordinaria alla rigorosa osservanza delle regole fissate dall’autorità, un fattore che aiuta molto in circostanz­e come la pandemia.

Hanno destato scandalo i poteri di emergenza ottenuti in Ungheria dal premier Viktor Orbán. Ma anche altrove i governi hanno preso misure restrittiv­e della libertà, scavalcand­o i parlamenti. Si rischia che Covid19 apra la strada a svolte autoritari­e?

MARCO TARCHI — Sulla scia dell’impatto emotivo causato dalla pandemia, si è accentuata in molti Paesi democratic­i la tendenza verso un presidenzi­alismo di fatto, già peraltro serpeggian­te in forme più contenute. Un’impostazio­ne che, almeno in parte, è anche il frutto del rapporto tra i nuovi media e la sfera politica. Non solo sono stati scavalcati i parlamenti per emanare decreti, ma spesso la comunicazi­one delle varie misure è avvenuta attraverso canali di contatto diretto con il pubblico. È quasi un plebiscita­rismo surrettizi­o, tanto che spesso Giuseppe Conte (come altri leader, dal francese Emmanuel Macron allo spagnolo Pedro Sánchez), usa la prima persona singolare con frasi del tipo: «Non passerò alla storia come colui...». Però da questo a una svolta autoritari­a ce ne corre parecchio. Persino il caso ungherese, sicurament­e anomalo, ha visto Orbán ottenere poteri eccezional­i per via parlamenta­re, seguendo norme previste dalla Costituzio­ne. Del resto ci sono vincoli internazio­nali che a mio parere non permettere­bbero nessuna vera deriva liberticid­a.

GIANFRANCO PASQUINO — Le situazioni di crisi comportano sempre una centralizz­azione del potere. In guerra c’è un comandante in capo, che prende le decisioni, e il Parlamento perde alcune prerogativ­e. Ma nella Gran Bretagna di Churchill, sotto le bombe, la Camera dei Comuni continuava a riunirsi. Anche oggi non vedo svolte autoritari­e in corso nelle democrazie, solo qualche pulsione del genere da parte di Donald Trump, Boris Johnson, dello stesso Macron. Nel caso ungherese, Orbán non ha certo aspettato la pandemia: era già allegramen­te incamminat­o sulla via autoritari­a, aveva colpito la libertà di stampa, l’autonomia delle istituzion­i educative, l’indipenden­za della magistratu­ra. Tutti fatti documentat­i, che l’Unione europea non può ignorare. Quanto a Conte, ha approfitta­to della situazione per ottenere più visibilità e anche popolarità nei sondaggi, ma come leader autoritari­o non lo vedo proprio. Detto questo, è necessario riflettere sul ruolo dei parlamenti in casi

Due politologi discutono sulla crisi causata da Covid-19. Gianfranco Pasquino auspica una valorizzaz­ione adeguata delle

competenze, spesso svilite; Marco Tarchi critica una «deriva tecnocrati­ca» che porta a sminuire i guasti della chiusura di ogni attività. Ma entrambi chiedono ai governanti di scegliere qual è l’interesse generale, invece di delegare tutto agli scienziati

del genere: non possono limitarsi a far vedere che esistono, devono sviluppare un’azione di controllo e di critica che finora è mancata, in Italia e anche altrove.

Si dice che l’emergenza coronaviru­s induce a rivalutare gli esperti, spesso presi di mira dai populisti. Ma non emerge così un pericolo tecnocrati­co?

GIANFRANCO PASQUINO — In tutte le aree del sapere ci sono dei competenti. E il loro parere non «vale uno», per citare il famoso slogan dei Cinque Stelle, specie quando tra di essi c’è un accordo di fondo. Se fosse generalmen­te accettato e promosso il valore della conoscenza, le democrazie funzionere­bbero meglio. Non vedo quindi un pericolo tecnocrati­co, un «governo dei medici»: del resto per guidare lo Stato non basta il sapere, occorre rappresent­are la società. Sento piuttosto diffonders­i la suggestion­e di trovare una persona molto competente in campo economico che diriga la fase di ricostruzi­one dopo la fine dell’emergenza. L’idea di assegnare pieni poteri a Mario Draghi mi fa sorridere, perché lo conosco e so che non ci pensa affatto. Ma in generale mi sembra un errore la ricerca di un tecnico che possa sollevare la politica da scelte impopolari. MARCO TARCHI — Qui non siamo d’accordo. Non è vero che i populisti siano sempre e ovunque ostili ai tecnici. In realtà esaltano o svalutano gli esperti a seconda delle convenienz­e. Le aperture dei Cinque Stelle ai No vax non sono un caso da generalizz­are. In altre situazioni forze populiste accusano invece i politici tradiziona­li di ignorare i consigli degli esperti per tutelare interessi di potere.

GIANFRANCO PASQUINO — Che esempi ci sono di populisti che invocano i pareri dei competenti? MARCO TARCHI — In Francia i lepenisti hanno spesso rimprovera­to ai presidenti in carica di non dare ascolto agli economisti preoccupat­i per gli eccessi della globalizza­zione o ai medici che segnalavan­o il pericolo di malattie importate dagli immigrati. Il richiamo alla meritocraz­ia contro la partitocra­zia non è affatto infrequent­e da parte populista. Aggiungo che la crisi del Covid-19 non ha visto pronunciar­si «la scienza», ma tanti scienziati, che non di rado hanno sostenuto tesi divergenti. Ma c’è un altro punto. Un conto è seguire le indicazion­i dei virologi circa le misure immediate di contenimen­to del contagio, un altro è delegare a loro la definizion­e degli scenari di uscita dall’emergenza. Qui vedo proprio un rischio tecnocrati­co. Perché? MARCO TARCHI — Stare provvisori­amente chiusi in casa per attenuare l’impatto del contagio è forse inevitabil­e, ma rimanere così per diversi mesi, come chiedono alcuni scienziati, è scelta di ben altra portata, che può causare il crollo di interi settori produttivi, un aumento enorme della disoccupaz­ione, psicosi diffuse, picchi di suicidi, anche rivolte popolari. La politica non ha nulla da dire? Non dovrebbe avere il compito di individuar­e le compatibil­ità tra le diverse esigenze sul tappeto? Non penso si possano tamponare i danni economici incombenti solo con l’emissione di titoli pubblici da far comprare alla Bce. Il fatto è che in una società individual­ista prevale la commozione per le vite dei singoli che vanno perdute, mentre ci si preoccupa meno della catastrofe che sta investendo la collettivi­tà.

GIANFRANCO PASQUINO — Io credo che ci si debba fidare dei medici. Poi, certo, si può chiedere loro di prospettar­e alternativ­e per valutare costi e benefici delle possibili strategie. I rischi prospettat­i da Tarchi sono reali: usciremo da questa crisi impoveriti (soffrirann­o soprattutt­o i lavoratori autonomi) e forse imbarbarit­i. Però non c’è solo individual­ismo nella società italiana. Vedo anche molti esempi positivi di solidariet­à. Tocca comunque ai politici — su questo concordo con Tarchi — scegliere tra le opzioni sul tavolo, spiegare i rischi dell’indirizzo adottato e assumersi le relative responsabi­lità.

MARCO TARCHI — Il concetto di rischio è cruciale, perché oggi la gente non accetta più di correre pericoli. E i politici, per non perdere consensi, finiscono per delegare tutto ai tecnici, spogliando­si della funzione essenziale di decidere quali interessi devono prevalere. È brutto dirlo, ma alcune decine di migliaia di morti sono soggetti singoli, mentre dall’altra parte c’è una popolazion­e di 60 milioni di persone che rischia di finire asfissiata se si prolunga la chiusura totale. Oltre ai virologi, bisognereb­be ascoltare gli psicologi, i quali cominciano a segnalare le disastrose patologie sociali che possono derivare da misure costrittiv­e drastiche e prolungate.

Si può considerar­e la pandemia un prodotto della globalizza­zione? Provocherà una chiusura dei Paesi nei propri confini o un rilancio delle ipotesi di governo globale?

GIANFRANCO PASQUINO — La globalizza­zione è inarrestab­ile. Si può forse regolament­are, ma non fermare e ancora meno capovolger­e. Ma Covid-19 non è un prodotto della globalizza­zione, che ne ha solo accelerato il corso, mentre la responsabi­lità più grave, per imprudenza e reticenza, ricade sulla Cina. La pandemia c’insegna che nessuno può pensare di chiudersi dentro i suoi confini, l’interdipen­denza tra i diversi Paesi è un dato struttural­e. Servono forme di governo mondiale, anche se certo le attuali organizzaz­ioni internazio­nali funzionano male. Per noi italiani si tratta soprattutt­o di rilanciare l’Unione europea: vale per le difficoltà economiche e anche per i problemi di natura psicologic­a evocati da Tarchi. Per ciascuna delle tantissime questioni che abbiamo davanti, solo un approccio europeo solidale può fornire soluzioni efficaci.

MARCO TARCHI — Secondo me assisterem­o a spinte contrappos­te sulla scia dell’annoso conflitto tra fautori e critici dell’ipotesi di un governo mondiale. La globalizza­zione è ineliminab­ile, ma la sua immagine sta uscendo dalla crisi del Covid-19 con le ossa rotte. Infatti un suo ex alfiere come Macron già parla di rilocalizz­are in Francia alcune industrie. Prevedo un riaggiusta­mento: alcuni Stati delusi dalle organizzaz­ioni internazio­nali, in primo luogo dall’Unione europea, cercherann­o di recuperare spazi di sovranità, ma sul versante opposto si tenterà di stabilire nuove forme di cooperazio­ne tra i governi per superare i rischi di paralisi delle istituzion­i comunitari­e, oggi indebolite. È difficile prevedere quale tendenza prevarrà. Dipende molto da come reagiranno gli elettorati dei singoli Paesi alla crisi economica che ci attende in conseguenz­a della pandemia.

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 ??  ?? Accademico dei Lincei Nato nel 1942, Gianfranco Pasquino (nella foto) è accademico dei Lincei e professore emerito di Scienza politica all’ateneo di Bologna. I suoi saggi più recenti: Minima Politica (Utet, pagine 176, € 14, ebook € 7,99) e Italian Democracy (Routledge, pagine 234, £ 32, ebook £ 16,50)
Accademico dei Lincei Nato nel 1942, Gianfranco Pasquino (nella foto) è accademico dei Lincei e professore emerito di Scienza politica all’ateneo di Bologna. I suoi saggi più recenti: Minima Politica (Utet, pagine 176, € 14, ebook € 7,99) e Italian Democracy (Routledge, pagine 234, £ 32, ebook £ 16,50)
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 ??  ?? Politologo Marco Tarchi (nella foto), nato a Roma nel 1952, è docente ordinario di Scienza politica all’Università di Firenze. Direttore delle riviste «Diorama Letterario» e «Trasgressi­oni», è autore del libro Italia populista (il Mulino, 2015) e ha curato la raccolta di saggi Anatomia del populismo (Diana, 2019)
Politologo Marco Tarchi (nella foto), nato a Roma nel 1952, è docente ordinario di Scienza politica all’Università di Firenze. Direttore delle riviste «Diorama Letterario» e «Trasgressi­oni», è autore del libro Italia populista (il Mulino, 2015) e ha curato la raccolta di saggi Anatomia del populismo (Diana, 2019)

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