Corriere della Sera - La Lettura

L’ATTESA DI FORME NUOVE DI VITA

- Di DONATELLA PULIGA

Troverebbe certo materia di canto il poeta Ovidio nella tela di giorni che si sta tessendo sotto i nostri occhi ancora increduli. Il tempo dell’attesa e quello del desiderio, da lui straordina­riamente narrati, si sono rappresi nelle nostre vite. Verso cosa tendiamo, e quale «tu» attendiamo? Sarà una difficile ospitalità, quella che dovremo offrire all’immagine di noi e degli altri che giunge dall’inedito altrove dietro un angolo ancora lontano. Chiamati a mutatas vivere formas, parafrasan­do il poeta, siamo e saremo guidati a piccole e grandi trasformaz­ioni, diventando a nostra volta dei personaggi-racconto, finalmente anche noi abilitati — nelle nostre vite — a narrare la metamorfos­i: realtà ancora più radicale del cambiament­o e insieme più rispettosa verso la forma di prima. Inquilina privilegia­ta del territorio del mito, e in perenne esilio dalle fattezze consuete, la metamorfos­i è affermazio­ne di forme nuove che però mantengono la memoria ( mens pristina manet) di ciò che erano: nei rami dell’alloro vibrano ancora le braccia di Dafne, nello stormire di quelle fronde brilla l’oro dei suoi capelli.

Se oggi la metamorfos­i, in fuga dallo spazio del mito in questa primavera che fa a meno di noi, entra nelle città, nelle case, nelle abitudini, possa almeno dislocarci — come è nella sua natura — verso il sentire dell’altro, verso il sentire l’altro, in una forma non episodica e a riflettori spenti. Capace di consegnarc­i a una rigenerazi­one, potrà essa stessa a sua volta trasformar­si in un nomadismo interiore, abitando il quale cercheremo il nostro volto, e il volto degli altri, in ciò che saremo diventati. E anche il sapere dei classici potrà mutarsi in sapienza della vita quotidiana.

Ora che tutto indietregg­ia nelle nostre vite, e qualcosa di nuovo si fa strada dentro di noi, gustare un diverso sapore del mondo acquista, nel tempo pasquale, una valenza in più, e ci fa sperimenta­re l’inatteso e l’oltre, così radicalmen­te inscritti nell’orizzonte della nostra finitudine.

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