Corriere della Sera - La Lettura
Volevo essere Mann, invece ero Broch
Lo scrittore viennese era roso dalla gelosia verso l’autore de «I Buddenbrook». Ma «I sonnambuli», di cui esce una nuova traduzione della prima parte, anticipa soluzioni compositive adottate decenni più avanti, persino da Bolaño
Hermann Broch, titolare di un’industria tessile a Teesdorf, poco fuori Vienna, tardivamente convertitosi alla carriera letteraria, ebbe la vita segnata dalla gelosia nei confronti di Thomas Mann che, romanziere nella medesima lingua benché d’altra nazionalità (ma Broch nutriva invidia anche per il connazionale Musil) raccolse allori ben superiori ai suoi. Se è vero che, senza Mann, Broch avrebbe potuto essere il maggior scrittore in lingua tedesca della sua epoca, fu un fatto inevitabile, dato che il primo aveva conosciuto il successo con I Buddenbrook già nel 1901 e la consacrazione con La montagna incantata nel 1925, mentre Broch avrebbe pubblicato il primo romanzo — proprio I sonnambuli — tra il 1930 e il 1932, a ridosso dall’affermazione del nazismo e quindi della scomparsa del suo «pubblico naturale». Ovvia allora per Hermann Broch la condanna alla riscoperta da parte di lettori formatisi su altri paradigmi, e quindi a un destino da irregolare, di cui l’altro suo grande lavoro, La morte di Virgilio, è l’altisonante, dolente e imperfetto sigillo.
Non si tratta però solo di una questione temporale: Broch non possedeva il dominio della prosa né la sensibilità di Mann, e I sonnambuli perde il confronto col suo omologo manniano La
montagna incantata proprio come La morte di Virgilio soccombe di fronte a
quel magistrale de profundis che è il Doktor Faustus. Sarebbe tuttavia ingenuo liquidare Broch sulla base di tale impari scontro, dal momento che i suoi romanzi non hanno mai smesso di parlare con voce potente e si presentano ancora oggi come opere dirompenti da un punto di vista strutturale, vere e proprie capofila di una «scuola» che Broch non fece neanche lontanamente in tempo a vedere. Ottima occasione per s coprire i l l oro car i co i nnovativo è quindi la pubblicazione, presso Adelphi, dei Sonnambuli, a cominciare dal primo volume, Pasenow o il romantici
smo, in una nuova traduzione a cura di Ada Vigliani.
La vicenda di Pasenow o il romantici
smo è relativamente semplice: nella Germania del 1888 il secondogenito di una famiglia di possidenti, avviato contro i propri desideri alla carriera militare ma ormai del tutto identificato in essa, si trova lacerato tra l’attrazione per Ruzena, un’avvenente prostituta boema che lavora in una taverna di Berlino, e il desiderio di convolare a giuste nozze con Elizabeth von Baddensen, erede dei ricchi vicini della propria famiglia. A ciò si affianca un ulteriore dilemma esistenziale, incarnato dalla figura dell’amico ed ex commilitone von Bertrand, che ha abbandonato la carriera militare per darsi al commercio (e a una Weltanschauung decisamente più liberale). Tutto ciò, nel cervellotico, a tratti nevrotico, rimuginare di Joachim von Pasenow, assume i contorni di una lotta tra intere epoche e sistemi di valori.
Il reale merito di Pasenow o il romanticismo, che anche nell’agile nuova traduzione resta una lettura piuttosto faticosa (ciò anche a causa di quanto Broch, senza averne ancora pieno controllo, spinge sulla prima delle sue grandi innovazioni, l’introduzione del pensiero in tutte le sue forme ovunque nel testo), si comprende solo nel quadro generale della trilogia, composta anche dai volumi Esch o l’anarchia e Huguenau o il realismo, di prossima uscita e ambientati rispettivamente nel 1903 e nel 1918, e spiace un po’, dopo i tre volumi editi da Mimesis, trovarsi di nuovo di fronte a questa divisione.
I sonnambuli, ancorché composto da tre vicende distinte e con pochissimi punti in comune, come la comparsa di questo o quel personaggio in questo o quel «blocco», è infatti a ogni effetto un solo grande romanzo, e proprio lì sta la seconda e decisiva innovazione recata da Broch. Parlando dei propri lavori, lui stesso li definì «gnoseologici o polistorici»; altri, fra cui Milan Kundera, parlarono di «polifonia», e in effetti è evidente che l’unità romanzesca, ne I sonnambuli, non è garantita dalla vicenda né dai personaggi né dal tempo dell’azione, e nemmeno dallo stile, diversissimo specie nel terzo volume, bensì dalla dimensione tematica e simbolica. Una lezione, e un allargamento delle possibilità del romanzo, senza la quale non avremmo oggi capolavori — usciti oltre sessant’anni più tardi! — come 2666 di Roberto Bolaño, Gli emigrati di W. G. Sebald (libro che, senza Broch, sarebbe facile derubricare a raccolta di racconti) o Abbacinante di Cartarescu, e alla luce della quale anche il carattere chiuso, rigido e insicuro del Joachim von Pasenow protagonista di questo «volume 1» diventa non solo tollerabile ma necessario: il primo terreno, ancora suo malgrado legato a un passato già in dissoluzione, da cui partire prima di volare altrove con Esch e Huguenau, ma senza mai trovare vere uscite da una storia risucchiata nel vortice del nonsenso e proiettata verso il doppio abisso della Grande guerra e del nazismo.