Corriere della Sera - La Lettura

Un respiro evoca l’abisso L’incontro Celan-Heidegger

- Di DONATELLA DI CESARE

A cent’anni dalla nascita e a cinquanta dal suicidio, una riflession­e sull’opera del poeta ebreo scampato alla Shoah, che l’autore di «Essere e tempo» (al contrario di Adorno) apprezzò e studiò. Ad accomunare il filosofo e l’ex internato, del quale escono «Microliti», era l’aspirazion­e a risalire là dove il linguaggio sprofonda nel silenzio

La notte del 20 aprile 1970 Paul Celan si gettò nelle acque della Senna dal ponte Mirabeau. Le circostanz­e precise non furono mai ricostruit­e. Già otto anni prima, nella poesia E con il libro di Tarussa, aveva scritto: «Dalle pietre quadrate di quel ponte, da cui andò a schiantars­i contro la vita, reso alato dalle ferite». Ai primi di maggio un pescatore ne rinvenne il corpo in una chiusa.

S’interruppe così la vita tormentata di Celan, a casa in tante lingue, ma estraneo ovunque. Era nato il 23 novembre 1920 a Czernowitz in Bucovina, provincia orientale dell’ex Impero asburgico (oggi Ucraina). I genitori venivano da famiglie ebree ortodosse della Galizia, culla del chassidism­o. Il padre si chiamava Leo Antschel-Teitler; solo nel dopoguerra il poeta mutò il cognome da Antschel in Celan. Se a scuola si studiava in rumeno, a casa si parlava in tedesco. La madre Friedrike gli trasmise la passione per Goethe, Schiller, Novalis. Lingua della madre — lingua della morte: questo sarebbe stato il tedesco per Celan. Quando seppe che la madre era stata uccisa dai nazisti con un colpo alla nuca, annotò: «E tolleri, madre, come in patria un tempo, il suono struggente del verso tedesco?».

Nelle vie di Czernowitz, crocevia commercial­e, città coltissima, le lingue si mescolavan­o — russo, ceco, yiddish, francese, inglese, spagnolo, ladino, eccetera. Celan non le dimenticò e — come ha suggerito Jacques Derrida — inscrisse magistralm­ente «quella Babele» nei suoi versi. Ma sarebbe impossibil­e voler interpreta­re la sua poesia astraendo dall’ebraico. Celan stesso ammonì contro la «degiudific­azione» dei suoi testi. Il rapporto con il sionismo del padre fu sempre molto teso. Allo scoppio della guerra civile spagnola Paul raccolse fondi per i repubblica­ni. «No pasarán!», la parola d’ordine antifascis­ta, riaffiora anche nei versi che nel 1968 dedicò al maggio francese. Celan studiò i testi dell’anarchismo — oltre a Kropotkin soprattutt­o Landauer, l’intellettu­ale ebreo, protagonis­ta della Repubblica dei Consigli a Monaco di Baviera.

In Bucovina la situazione precipitò quando, nell’estate del 1941, entrarono le armate hitleriane. A Czernowitz gli ebrei furono internati in un ghetto. Celan venne assegnato a un campo di lavoro fuori città. Tentò invano di convincere il padre a fuggire. Quando, giorni dopo, riuscì a ottenere un permesso per rientrare, non trovò più nessuno nella vecchia casa. Seppe poi che i genitori erano stati deportati nel Lager di Michailovk­a, in Ucraina. Fu un trauma profondo, un lutto irreparabi­le, una perdita che gli provocò laceranti sensi di colpa.

Tangul mortii, tango della morte. Venne scritta dapprima in rumeno, nel 1945, la poesia che Celan dedicò al Lager. In tedesco diventò Todesfuge, fuga di morte.

Ossessivi, martellant­i, implacabil­i, i versi si dispiegano in un frenetico ritmo musicale, trascinano il lettore in una danza parossisti­ca, nel tango della morte. I riferiment­i autobiogra­fici si mescolano con la descrizion­e e la denuncia: la «palla di piombo» che «colpisce con mira precisa», la «tomba nell’aria» che gli ebrei sono costretti a scavarsi, il «latte nero del mattino», l’annientame­nto perfino di quel bianco liquido materno, che assume il colore della tenebra. Schubert, Brahms, Mahler e addirittur­a Wagner offrono lo spartito ritmato da un refrain che oppone i «capelli d’oro» di Margarete ai «capelli di cenere» di Sulamith, Goethe al Cantico dei cantici.

Adorno si riferiva a quei versi quando, rientrato nella Germania postnazist­a, emise il suo verdetto: «Scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie»? È possibile. Celan ne soffrì molto; si sentì direttamen­te attaccato. In Adorno vedeva l’amico di Benjamin e Scholem con cui avrebbe potuto stringere un’alleanza per vigilare contro le derive della memoria tedesca. Non fu così. La delusione per quell’«incontro mancato» venne affidata al Dialogo in montagna, una sorta di favola, un autodafé, forse la riflession­e più significat­iva sull’identità ebraica dopo Auschwitz.

A ritrovarsi sono due «cugini», Gross e Klein, l’ebreo grande e l’ebreo piccolo. Il primo ha un grande bastone e ordina all’altro di far tacere il suo. «Così tacque anche la pietra». Ma può il silenzio durare tra ebrei — quei «chiacchier­oni»? Quando un ebreo ne incontra un altro «è presto finita con il silenzio, anche in montagna». Allora si prosegue. Così dice Klein: «Quassù la terra si è piegata, si è inarcata una volta e due e tre, e s’è aperta nel mezzo». Da questa ferita può scaturire la poesia: tra la pietra, muta come i morti che ebraicamen­te protegge, e il bastone del poeta sopravviss­uto, «colpito» e «non colpito», consegnato alla sua «debole memoria».

L’argomento di Adorno era addirittur­a

capovolto. A dirlo con chiarezza fu Peter Szondi, il fine critico letterario, suicida a sua volta nel 1971.« L’ attualizza­zione del campo di sterminio non è solo il fine della poesia di Celan, ma la sua stessa condizione».

D’altronde che cosa poteva avere in comune Celan con chi aveva scritto l’infelice Gergo dell’autenticit­à? Ciò che lo separava da Adorno, lo accomunava a Heidegger: il linguaggio. Come dire quel che era accaduto senza scadere in una sublimazio­ne banalizzan­te e senza cedere al mutismo della mistica? Nella biblioteca di Celan, il cui catalogo è stato pubblicato di recente, figurano 33 volumi di Heidegger, tutti fittamente annotati.

Cominciò a leggere già nel 1951. In quei testi cercava il nesso tra linguaggio e silenzio. «Tacere non vuol dire essere muti»; perché «chi tace può “dare a intendere” ben più di chi non smette mai di parlare». Questo aveva scritto Heidegger in

Essere e tempo. Celan scorse in quelle parole la via d’uscita, il varco dalla «strettoia». In comune con il filosofo aveva l’aspirazion­e a risalire là dove il linguaggio si inabissa nel silenzio. Non si trattava, però, di riandare all’origine, bensì di articolare il rantolo delle vittime e inciderlo nella lingua tedesca. Doveva riprendere a parlare dall’abisso nel cielo, dalle tombe nell’ aria. Il respiro si è fatto parola, «strappata al silenzio», anti-parola, contro chi nega tace. Dopo Auschwitz la poesia è questa inversione, questa rivolta: dalla rinuncia del silenzio all’audacia messianica del linguaggio. Atemwende si intitola la celebre raccolta.

Heidegger fu affascinat­o dai versi di Celan. Studiò la sua opera, la apprezzò profondame­nte. Cercò di incontrarl­o; lo invitò a Friburgo. Sapeva della forte depression­e del poeta, più volte ricoverato in clinica psichiatri­ca. Epocale fu il loro incontro il 25 luglio 1967 nella Foresta Nera, dove Heidegger aveva il suo rifugio. Qualche giorno dopo Celan scrisse il celebre poema Todtnauber­g.

Su quell’incontro aleggia più che mai il mistero e si continua a discutere. Tanto più dopo la pubblicazi­one dei Quaderni

neri. Celan era quasi ossessiona­to: Heidegger, più di tutti, avrebbe dovuto intervenir­e. La parola del filosofo era indispensa­bile — per ammettere il suo errore e per denunciare il neonazismo e il nuovo antisemiti­smo.

Si sa oggi che sulla sua copia del Meridiano Heidegger aveva scritto a margine

Ent-sagen, che significa rinunciare a dire. Quasi avesse voluto lasciare la parola a Celan, rilanciand­ogli il suo stesso verso: «Parla anche tu, parla per ultimo, di’ il tuo motto». Era come se gli dicesse traducimi, se tradurre vuol dire redimere.

Aveva progettato un viaggio nell’estate del 1970 per portare Celan alle fonti del Danubio, attraverso il suo paesaggio preferito, quello cantato da Hölderlin. Ma qualche mese prima il poeta si tolse la vita.

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy