Corriere della Sera - La Lettura
I gatti si chiamano mondo
Una meditazione metafisica, forse mistica, sul dare un nome alla realtà: le strofe «feline» di T. S. Eliot vanno oltre il gioco
Thomas Stearns Eliot pubblicò Il libro dei gatti
tuttofare nel 1939. A quel punto era già un poeta straordinariamente riconosciuto, un fondatore. Basti dire che il suo poemetto La
terra desolata, uscito nel 1922, è probabilmente l’opera che meglio ha condensato in immagine l’epoca moderna e contemporanea, e dunque la più immediatamente rappresentativa del Novecento, non soltanto poetico. Rispetto ai registri consueti, tuttavia, Eliot sembrerebbe essersi preso in questo caso una vacanza. E per certi versi è così. Non l’impegno poetico come ricerca della verità, come responsabilità etico-civile e come irreprensibile determinazione espressiva, ma un’incursione dai modi sornioni e svagati, quasi dimissionari, negli affari privati e nelle pubbliche imprese della vita dei gatti. La componente ironica e giocosa di queste poesie si può riconoscere del resto fin dal titolo. E anzi diventa ancora più esplicita se ci si rifà alla sua versione più letterale, che propriamente sarebbe Il libro dei gatti pratici del Vecchio Possum (nel 1981 diventerà la fonte d’ispirazione del musical Cats).
Questa singolare opera poetica è stata riproposta da Bompiani nella bella traduzione di Roberto Sanesi, con una prefazione di Emilio Tadini e alcune illustrazioni di Edward Gorey. In una paginetta esplicativa, Sanesi ricorda tra l’altro che in occasione della sua prima traduzione (la presente e definitiva è la terza) fu Eliot in per
sona ad autorizzarlo a prendersi le libertà necessarie nella resa dei nomi dei gatti. Così siamo già nel cuore della questione.
Tutt’altro che vacanziero e disimpegnato, Il libro dei
gatti è in realtà un’opera sull’imposizione del nome a ciò che riconosciamo come realtà. Qui infatti il nome è tutto. Da questo punto di vista la poesia d’apertura, Il
nome dei gatti, è dichiaratamente un manifesto, quasi una guida alla lettura delle poesie che seguiranno: «È una faccenda difficile mettere il nome ai gatti;/ niente che abbia a che vedere, infatti,/ con i soliti giochi di fine settimana./ Potete anche pensare, a prima vista,/ che io sia matto come un cappellaio,/ eppure, a conti fatti, vi assicuro che un gatto deve avere in lista TRE NOMI DIFFERENTI». E questi saranno poi un nome d’uso quotidiano, uno più «particolare e peculiare, più dignitoso», e da ultimo un nome che «la ricerca umana» non «è in grado di scovare», in quanto solo «IL GATTO LO CONOSCE, anche se mai lo confessa».
Si potrebbe subito ricordare il nostro Pascoli, quando dice che il fanciullo-poeta «è l’Adamo che mette il nome a tutto ciò che vede e sente», anche se probabilmente Eliot, che si è voluto a tutti gli effetti uno scrittore della maturità, non avrebbe sottoscritto a cuor leggero. Ma resta vero che proprio l’atto di «mettere il nome» chiama comunque in causa la figura del poeta. Da questo punto di vista Il libro dei gatti si può leggere come un’opera sui nomi, e più precisamente sulla realtà (i gatti, appunto) e sul suo battesimo, tra onnipotenza e inadempienza, da parte del poeta.
Verso la fine della raccolta è lo stesso Eliot a dirci che i gatti stanno per la realtà e, insomma, per noi: «Ora avete imparato abbastanza per capire/ che un Gatto non è affatto differente/ né da voi né da me né da altra gente». Anche se con questo non si è certo venuti a capo dell’arcano. Come in queste poesie non ci si stanca di ripetere, infatti, il gatto è di per sé inafferrabile, in quanto non lo si può definitivamente catturare e risolvere in quel nome che, diciamo così, gli ruberebbe davvero l’anima. Al di là di ogni sforzo di poesia, in sostanza, il gatto-noi, il gatto-realtà, pensa e contempla sé stesso, è la sua stessa lingua (è questo un libro metafisico, o anche mistico, com’è stato detto). E infatti, in uno dei passaggi decisivi della raccolta: «Quando vedete un gatto in profonda meditazione/ la ragione, credetemi, è sempre la stessa:/ ha la mente perduta in rapimento ed in contemplazione/ del pensiero, del pensiero, del pensiero del suo nome:/ del suo ineffabile effabile/ effineffabile / profondo inscrutabile ed unico nome». Se ogni poesia aspira in qualche misura a essere come un nome proprio o, appunto, come l’«unico nome», forse è lecito pensarla appunto come quel nome proprio che la realtà non tollera di avere.
Questi gatti pratici o tuttofare, del resto, sono immancabilmente imprendibili. Si sottraggono, stanno per i fatti loro, la sanno lunga, senza svelare mai del tutto il proprio mistero e, soprattutto, senza farsi mai davvero addomesticare («non fatevi illusioni di cambiarlo: lui alla fine fa/ solo quel che gli va»). La gatta Gianna Macchiamatta che «siede, siede e siede», ad esempio; oppure i compari Gattràc e Gattafascio, che possiedono «il dono fantastico/ del bla bla senza alcuna esitazione», o ancora il leggendario, Vecchio Deuteronomio, un gatto «profondamente dedito al riposo». E poi ci sono scorrerie, misfatti, sotterfugi e gesta eroiche, perfino battaglie tra cani (l’animale dell’ubbidienza, del lavoro, della fedeltà) che un gatto, con la sua semplice ma carismatica apparizione, vale a smarrire.
Col suo verso lungo e i suoi ritornelli quasi cantabili, in queste poesie Eliot offre una versione di sé estremamente brillante, arguta, divertita, ma con un esito, come detto, che può risultare perfino pedagogico. Così si conclude Come rivolgersi a un gatto: «È dunque per un Gatto del tutto naturale/ essere fatto segno a un rispetto totale,/ e soltanto col tempo capirete come/ sia consento chiamarlo per NOME». Di cos’altro si tratta, infatti, se non di un’educazione linguistica alla realtà tutta?