Corriere della Sera - La Lettura
Storia della storia di un cieco che ci vede bene
Simbolismi Marco Franzoso impiega l’espediente del manoscritto ritrovato per legare tre personaggi
Le parole possono svelare, mistificare, nascondere l’opacità dei rapporti famigliari. Ne esce ridisegnato il confine tra normalità e disagio, si invertono i ruoli tra vittima e carnefice. Pur premendo su un simbolismo più rarefatto, non si distacca dal cuore narrativo che caratterizza i suoi romanzi precedenti Marco Franzoso, scrittore veneto, autore di libri come Il bambino indaco, dove una madre ossessionata da un’idea estrema e irraggiungibile di purezza costringe il figlio neonato a un’alimentazione sconsiderata. O L’innocente, dove l’accusa di molestie a un prete si concentra in un giorno solo, quello dell’interrogatorio al ragazzino, presunta vittima. A dispetto del titolo, Le parole lo sanno, anche in questo nuovo romanzo a Franzoso interessa in realtà vedere che cosa le parole non sanno oppure non dicono. Lo fa portando avanti la sua indagine con un meccanismo narrativo che, più dei precedenti romanzi, gioca su vari registri. Mescola le ossessioni dell’amour fou con la suspense di certi noir alla Simenon o alla Dard diluiti in una Milano contemporanea stilizzata in pochi simboli: il parco Lambro, la stazione Centrale, il San Raffaele. Minimi dettagli topografici che danno consistenza e limitano l’impatto metaforico di una storia che altrimenti resterebbe sospesa in un’indefinitezza universale, legata a un sovraccarico di simboli (il cigno nero, la panchina, gli occhiali scuri).
Franzoso si affida all’espediente del manoscritto ritrovato da uno scrittore nel mezzo di una sua personale crisi esistenziale. In questo caso è un diario, lasciato su una panchina al parco. Caso o destino? «Trovate voi il termine più adatto, non sono certo le parole a rendere importante la vita, casomai sono le conseguenze della parole, ma su quelle non deteniamo alcun potere». Ciò che è certo è che a lasciare le confessioni dirette a una giovane donna è stato un finto cieco che, prima di andarsene, si gira per vedere chi le ha trovate, come se volesse affidargliele.
Il diario racconta l’incontro e la conoscenza tra due persone, Alberto e Flavia, che, proprio quando credono che la vita non riservi loro più nulla, scoprono la possibilità di qualcosa di autentico (un sentimento? Un’ossessione?) che si sviluppa proprio su quella panchina. Nasce un’intimità, una comunione di sentire che mima il rapporto che si crea, nei casi migliori, tra scrittore e lettore. Entrambi i personaggi devono indossare una maschera per riuscire a vedere: sé stessi, la propria vita, il respiro della città, il corso della natura indifferente.
Alberto è un medico che ha appena scoperto di avere una brutta malattia e sa che le parole di speranza del collega che lo ha in cura sui «progressi straordinari della chirurgia» non velano la drammaticità della situazione. Per nascondersi al mondo senza nascondere il mondo a sé stesso decide di indossare occhiali scuri, che rendono innocua la luce del sole, e un bastone da cieco: «Non so, forse stavo davvero impazzendo, ma ho sentito all’istante che quegli occhiali mi avrebbero concesso lo spazio necessario per pensare, la giusta distanza dal mondo direi». È così «travestito» che incontra Flavia, una giovane mamma con un neonato nella carrozzina e in mano La camera azzurra di Georges Simenon.
L’appuntamento alla panchina diventa un impegno giornaliero, si succedono altri libri, altri discorsi e arriva il momento in cui la porta delle vite degli altri si apre anche per gli sconosciuti. Sulla panchina, «la seconda a destra, dopo la cascatella» lei, a puntate, racconta la sua storia di ordinaria violenza domestica — un feuilletton asciutto, senza lieto fine — mentre l’intesa cresce fino a diventare urgenza, bisogno. Franzoso costruisce con destrezza una narrazione a scatole cinesi: un uomo legge il diario di un altro uomo che racconta la storia di una donna. Lo scrittore non si perde nel labirinto ma, osservandolo attraverso questo triplice filtro, arriva a una verità che non può che essere quella del dubbio, dell’interpretazione, della visione (relativa) che ciascuno ha di uno evento, di un fatto, degli altri.