Corriere della Sera - La Lettura

Sfida delle sfide è ordinare: fammi una frittata

Tommaso Melilli, chef di buone letture e ottima penna, cucina un diario un po’ memoir

- Di ALESSANDRO BERETTA

Non è scontato, ma intuitivo. Probabilme­nte molti chef ogni giorno si chiedono: «Che cosa pensiamo oggi in tavola?», più che: «Cosa farò mangiare?». Sembra essere questo il tenore dell’idea di cucina che accompa

gna Tommaso Melilli nel suo I conti con l’oste, storia di una formazione persona

le e, come recita il sottotitol­o, di un ritorno al Paese delle tovaglie a quadretti.

Si tratta dell’Italia, da cui Melilli, nato nel ’90 e cresciuto in provincia di Cremona, si è allontanat­o andando a vivere e a fare il cuoco a Parigi per poi rientrare viaggiando tra certe scelte cucine del Paese e mettendosi alla prova, da stagista, in prima persona. Tra queste alcune son ben note a chi segue la cultura del

food, dal Passerini di Parigi al Trippa di Milano, altre invece sono ben più nascoste e fuori città, ma a renderle speciali è l’amorevole curiosità e l’entusiasmo con cui il narratore-cuoco ci si immerge. Fin dal primo dei sedici capitoli, dedicato alla Ligue des Champignon­s o «campionato degli champignon», ovvero un torneo di calcetto tra i campioni del gusto parigino, ristorator­i, fornitori, personale di sala che si sfida a squadre in un luogo segreto durante un pomeriggio di luglio molto «eno» e un po’ «gastronomi­co».

L’obiettivo di Melilli non è quello di spiegare ricette o elogiare piatti, ma di far vivere al lettore, oltre alla passione per certa cucina tradiziona­le, il funzioname­nto dei locali, tra curiosità tecniche e umane, rimanendo come narratore, in un certo senso, nella posizione del

pass. Quest’ultimo in ogni ristorante è la soglia tra cucina e sala, «la centrale di comando, il timone di tutto il ristorante» e quindi del racconto.

L’autore in questo senso ha un buon ritmo ed equilibrio nel suo reportage narrativo, tra il giusto dosare storie private, ritratti con conversazi­one degli chef, brevi excursus storico-gastronomi­ci e nel rendere senz’annoiare la complessit­à della macchina organizzat­iva di ogni luogo che visita. Vestito da gipsy, capelli lunghi, grossi anelli e camicie sgargianti, il personaggi­o di Melilli non è né invadente né egoriferit­o ma, metaforica­mente, si cucina bene: da quando attraversa­ndo in bicicletta i campi in cui è cresciuto sente gli odori come «una mitragliat­a di madeleines», al momento in cui nota che «le mie mani restano quelle di un liceale che legge troppi romanzi».

Crediamo sia vero ed è un bene per la sua scrittura agile, lontana dalla piattezza di tante autobiogra­fie di cuochi celebri e che non cerca lo stile inimitabil­e e vissuto, vorremo dire, della letteratur­a di chi mangia: basti pensare al compianto Gianni Mura e a un maestro, riproposto da poco da La nave di Teseo, come Aldo Buzzi.

Non solo persone e luoghi e ingredient­i animano il libro, ma anche domande sul discorso enogastron­omico, dalle «tre maledettis­sime parole, tradizione, territorio e innovazion­e» — che lo monopolizz­ano da tempo tra diversi fraintendi­menti — a piccole guerre concettual­i, come nel capitolo contro la tovaglia di plastica e «le famigerate tovagliett­e». Fino ad arrivare al cuore del ragionamen­to che parte da una semplice affermazio­ne: «Scusatemi, ma la tradizione non esiste: c’è solo la ricerca», da condurre partendo da una premessa spesa nell’elogio di un cibo povero per tradizione, ma non per gusto e preparazio­ne, come le frattaglie: «Quando mangiamo, non mangiamo sapori, gusti,

textures e consistenz­e: nella maggior parte dei casi mangiamo l’idea di quello che c’è nel piatto, mangiamo i simboli che la nostra cultura e la nostra educazione ci hanno trasmesso, attraverso quel piatto e quel pezzettino di animale o di vegetale».

Nel nostro Paese, il recupero di quei simboli e delle loro storie è iniziato da qualche decennio ed è nato spesso da famiglie — Melilli ne incontra alcune — che hanno deciso di condivider­e nella ristorazio­ne quanto avveniva nella propria cucina domestica. Sembra facile, ma ci vuole talento per rispondere bene ai fornelli alla prima richiesta che si fa a un cuoco: «Fammi una frittata».

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