Corriere della Sera - La Lettura
Sfida delle sfide è ordinare: fammi una frittata
Tommaso Melilli, chef di buone letture e ottima penna, cucina un diario un po’ memoir
Non è scontato, ma intuitivo. Probabilmente molti chef ogni giorno si chiedono: «Che cosa pensiamo oggi in tavola?», più che: «Cosa farò mangiare?». Sembra essere questo il tenore dell’idea di cucina che accompa
gna Tommaso Melilli nel suo I conti con l’oste, storia di una formazione persona
le e, come recita il sottotitolo, di un ritorno al Paese delle tovaglie a quadretti.
Si tratta dell’Italia, da cui Melilli, nato nel ’90 e cresciuto in provincia di Cremona, si è allontanato andando a vivere e a fare il cuoco a Parigi per poi rientrare viaggiando tra certe scelte cucine del Paese e mettendosi alla prova, da stagista, in prima persona. Tra queste alcune son ben note a chi segue la cultura del
food, dal Passerini di Parigi al Trippa di Milano, altre invece sono ben più nascoste e fuori città, ma a renderle speciali è l’amorevole curiosità e l’entusiasmo con cui il narratore-cuoco ci si immerge. Fin dal primo dei sedici capitoli, dedicato alla Ligue des Champignons o «campionato degli champignon», ovvero un torneo di calcetto tra i campioni del gusto parigino, ristoratori, fornitori, personale di sala che si sfida a squadre in un luogo segreto durante un pomeriggio di luglio molto «eno» e un po’ «gastronomico».
L’obiettivo di Melilli non è quello di spiegare ricette o elogiare piatti, ma di far vivere al lettore, oltre alla passione per certa cucina tradizionale, il funzionamento dei locali, tra curiosità tecniche e umane, rimanendo come narratore, in un certo senso, nella posizione del
pass. Quest’ultimo in ogni ristorante è la soglia tra cucina e sala, «la centrale di comando, il timone di tutto il ristorante» e quindi del racconto.
L’autore in questo senso ha un buon ritmo ed equilibrio nel suo reportage narrativo, tra il giusto dosare storie private, ritratti con conversazione degli chef, brevi excursus storico-gastronomici e nel rendere senz’annoiare la complessità della macchina organizzativa di ogni luogo che visita. Vestito da gipsy, capelli lunghi, grossi anelli e camicie sgargianti, il personaggio di Melilli non è né invadente né egoriferito ma, metaforicamente, si cucina bene: da quando attraversando in bicicletta i campi in cui è cresciuto sente gli odori come «una mitragliata di madeleines», al momento in cui nota che «le mie mani restano quelle di un liceale che legge troppi romanzi».
Crediamo sia vero ed è un bene per la sua scrittura agile, lontana dalla piattezza di tante autobiografie di cuochi celebri e che non cerca lo stile inimitabile e vissuto, vorremo dire, della letteratura di chi mangia: basti pensare al compianto Gianni Mura e a un maestro, riproposto da poco da La nave di Teseo, come Aldo Buzzi.
Non solo persone e luoghi e ingredienti animano il libro, ma anche domande sul discorso enogastronomico, dalle «tre maledettissime parole, tradizione, territorio e innovazione» — che lo monopolizzano da tempo tra diversi fraintendimenti — a piccole guerre concettuali, come nel capitolo contro la tovaglia di plastica e «le famigerate tovagliette». Fino ad arrivare al cuore del ragionamento che parte da una semplice affermazione: «Scusatemi, ma la tradizione non esiste: c’è solo la ricerca», da condurre partendo da una premessa spesa nell’elogio di un cibo povero per tradizione, ma non per gusto e preparazione, come le frattaglie: «Quando mangiamo, non mangiamo sapori, gusti,
textures e consistenze: nella maggior parte dei casi mangiamo l’idea di quello che c’è nel piatto, mangiamo i simboli che la nostra cultura e la nostra educazione ci hanno trasmesso, attraverso quel piatto e quel pezzettino di animale o di vegetale».
Nel nostro Paese, il recupero di quei simboli e delle loro storie è iniziato da qualche decennio ed è nato spesso da famiglie — Melilli ne incontra alcune — che hanno deciso di condividere nella ristorazione quanto avveniva nella propria cucina domestica. Sembra facile, ma ci vuole talento per rispondere bene ai fornelli alla prima richiesta che si fa a un cuoco: «Fammi una frittata».