Corriere della Sera - La Lettura
La musica è finita gli uomini se ne vanno
L’incipit L’hacker, la reporter, l’ex docente universitario. Cosa li unisce? La passione per le note (che scandiscono il racconto) e un virus che vuole...
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DO Da tutto quello che Toshi Yukawa poté determinare in seguito, il file originale era stato caricato su uno di quei siti illegali Brigadoon che comparivano dal nulla, attiravano migliaia di visite estasiate dai sei continenti, e poi scomparivano senza lasciare traccia dodici ore più tardi.
Yukawa — o l’artista un tempo conosciuto come free4you — era pagato per trascorrere i suoi giorni frugando alla ricerca di siti del genere. Quando aveva ventisei anni, la Recording Industry Association of America aveva circondato il suo appartamento, condannandolo a una multa di 50 mila dollari e quattro anni di prigione. Adesso aveva ventotto anni, era fuori sulla parola, e lavorava per i suoi vecchi nemici.
Il suo compito era studiare la più recente escalation che stava portando un’eterogenea accozzaglia di hacker, sfaccendati e fuori di testa, ad aggredire l’industria multimiliardaria della musica per lanciare una nuova controffensiva e dichiarare il file-sharing una terra di nessuno.
Secondo i calcoli di Yukawa, un server di file illegali poteva soddisfare in media 500 mila clienti felici in tutto il mondo prima di venire chiuso. La maggior parte dei saccheggiatori correva a rastrellare i brani più venduti della settimana. Ma anche i file che non avevano nessuna descrizione identificativa potevano accumulare centinaia di download prima che la fonte si prosciugasse.
Molto più tardi, Yukawa ipotizzò che il brano infetto poteva essersi installato all’inizio in un minimo di cinquanta macchine. Ma, come sottolinearono i suoi amici epidemiologi digitali, tutto ciò che servì a far partire una vera e propria epidemia fu un pacco sorpresa con dentro un paziente zero, riuscito a sfuggire alla quarantena.
DO# Una settimana prima che la musica cambiasse, la giornalista brasiliana Marta Mota stava mettendo sotto torchio un’unità d’attacco affiancata alla Seconda divisione di fanteria vicino a Baqubah, nell’esplosiva provincia irachena di Diyala. Cercava una storia per il «Folha de S. Paulo», una nuova angolatura che non fosse già trita e ritrita su un conflitto senza fine. La tensione con cui i soldati avevano convissuto per anni l’aveva spezzata in tre giorni. Tutto quello che voleva era tornarsene nel suo appartamento a Tatuapé e scrivere un insignificante servizio sulla dilagante corruzione locale.
Il giorno prima di lasciare Baqubah, intervistò un giovane specialista americano chi si faceva chiamare Jukebox. Jukebox raccontò, con più dettagli di quanto chiunque sentisse il bisogno, che parte del suo lavoro ufficioso consisteva nel montare altoparlanti su uno dei veicoli corrazzati M1127, per sparare musica che galvanizzasse le unità durante le operazioni: «Cosa fa questa musica?», Marta chiese al soldato, nel suo inglese dall’accento leggero. La domanda lo meravigliò, così dovette ripeterla. Jukebox la interruppe, un po’ nervoso e un po’ divertito. «Cosa fa? Dipende da chi la ascolta». Quando lei insistette per avere dettagli, Jukebox disse: «Lo sai bene cosa diavolo fa». A queste parole, Marta Mota tornò con la mente a quella volta a Panama in cui si era trovata ad ascoltare i marine che cercavano di fare uscire dal bunker Manuel Noriega con massicce ondate di Van Halen in dolby surround. Accadeva vent’anni fa, quando lei era ancora una giovane giornalista, convinta che la storia giusta potesse cambiare la coscienza della sua specie. Da allora, coprendo zone di combattimento su tre continenti, aveva scritto di suoni ben più strazianti.
Marta chiese che musica venisse pompata dal veicolo corazzato, e Jukebox fece un rapido elenco: la colonna sonora dell’ineludibile futuro del mondo. Chiese di poterla ascoltare. Lui tirò fuori una cosa che assomigliava alle scatole di fiammiferi sui tavolini del suo jazz club preferito di Vila Madalena. Lei si infilò gli auricolari e lui accese il lettore. Si strappò le
cuffie dalle orecchie, gemendo di dolore. Jukebok fece una risata e regolò il volume. Anche quasi ridotta a muto, quella musica perforava le orecchie, faceva sanguinare il cervello e spezzava la spina dorsale. «Puoi copiare qualche brano sul mio lettore?», chiese lei, e tirò fuori il dispositivo dalla borsa. Avrebbe scritto delle operazioni musicali di ricognizione a Francoforte, durante il ritorno verso casa.
Alla vista del lettore di lei, vecchio di tre anni, Jukebox pianse dalla gioia. Fece finta di non riuscire a sollevarlo. «Quanto pesa questa bestia, mezzo chilo tipo?».
Nel campus di un college del Midwest, nell’infinito nulla che va dall’Iowa all’Indiana, in mezzo a una distesa di granturco che fugge per 500 chilometri in ogni direzione, un professore di etnomusicologia da poco in pensione attraversa il cortile dentro a una spolverata di neve, verso il suo ufficio nell’edificio di Musica, per iniziare a sgombrare. Jan Steiner doveva lasciare libero l’ufficio ad agosto, per consegnarlo a un membro di facoltà neoassunto; adesso è metà dicembre, il semestre è finito, e non ha ancora iniziato a raccogliere le sue cose. Nato alla fine degli anni Venti a Praga da una famiglia di lingua tedesca, Steiner arrivò negli Stati Uniti appena prima che metà dei suoi parenti fosse spedita a est. Da un’enclave cecoslovacca nel Queens si spostò a Berkeley e poi a Princeton, da dove iniziò a cambiare il modo in cui gli accademici ragionavano di musica da concerto. Aveva insegnato nella sua prestigiosa università più a lungo di chiunque altro, e aveva occupato il suo ufficio un semestre di più di quanto fosse consentito. [...]
Entra dalla porta laterale e procede verso il secondo piano. Anche in una nevosa domenica di dicembre, le sale prove vanno a pieno regime. Supera le otto cabine dei pianoforti a mezza coda — Pianosauri Rex dalla potenza massima di ottantotto tasti. Il repertorio si è ampliato nel mezzo secolo che ha trascorso al campus. L’unico frammento sonoro che riconosce dell’intera, policorale linea d’attacco è il John Cage che proviene dalla cabina vuota al fondo.
Altre voci, altre stanze: ha dato la vita per sostenere tutto ciò, e la battaglia è quasi vinta. La disciplina ha scoperto il 98% della musica proveniente dal mondo e fino a oggi repressa. L’elitismo è morto, l’orecchio di tutti è per sempre aperto. Allora perché questa coltre che non è riuscito a diradare durante gli ultimi, lunghi mesi? Forse è il senso di oppressione che Paul Hindemith attribuì una volta a Bach nei suoi ultimi anni a Lipsia: la malinconia del traguardo.
Apre la porta di noce del suo ufficio e accende la luce. La tomba è sovraffollata. Su ogni superficie, incluso il pavimento di linoleum scuro, sono accumulate precarie torri di carta. Le mensole sono rigonfie di monografie. Pile di cartelle e raccoglitori arrivano quasi alle lampade. Ma è ancora in grado di individuare ogni cosa in non più di qualche minuto. Il problema è il desiderio. Deve analizzare ogni frammento. C’è troppa roba per poterla salvare tutta, ma gettarne via anche solo un pezzo gli fermerebbe le valvole cardiache già riparate una volta. Cinquant’anni di iconoclastia. La biblioteca universitaria potrebbe fare ordine e tenere le cose di valore. Ma chi ha messo piede nella biblioteca negli ultimi cinque anni?
Si butta sulla sedia della scrivania e guarda l’orribile regalo di addio che gli è stato dato alla festa di pensionamento. Il dipartimento gli ha consegnato il dispositivo portatile durante una cerimonia strappalacrime: orologio, calendario, agenda, telefono, browser, un trasportatore di materia, e soprattutto una mancia per farlo andare via tranquillo. Quell’aggeggio, tra l’altro, riproduce musica. Anche il nome fa molto L’invasione degli
ultracorpi. Avrebbe dovuto saperlo, mezzo secolo fa, che la musica, come tutte le erbacce più resistenti, sarebbe arrivata dentro a baccelli (in inglese pods, ndt).
E in questo sono stati già caricati tutti i brani musicali che lui abbia studiato, registrato o campionato. Canti turchi e canzoni dei campi di lavoro cinesi, orchestre gamelan e cori dei matrimoni albanesi, inni dei prigionieri politici e jingle radiofonici degli anni Trenta: il lavoro di tutta la vita arrangiato per uno strumento che chiunque potrebbe imparare a suonare senza sforzo. Ma come è venuto in mente ai colleghi di restituirgli ciò che era già suo? Quello di cui ha bisogno è la musica che non ha ancora scoperto, qualsiasi suono che non si sia estinto ricadendo nella categoria della sopravvalutazione, della derivazione o del mercato. Afferra il dispositivo, lo accende e scorre tra le schermate del menù cercando una canzone che, in un modo o nell’altro, per caso, abbia provvidenzialmente dimenticato.