Corriere della Sera - La Lettura

Ho sconfitto la Spagnola

- di BORIS PAHOR

Gli amici mi domandano spesso come vivo questo tempo difficile; come reagisco. Se il coronaviru­s mi fa paura. Potrà sembrare strano alla mia età — 106 anni compiuti il 26 agosto — e dopo averne viste tante (i campi di concentram­ento nazisti dove fui rinchiuso, riuscendo a scamparla; una grave tubercolos­i, scampata anche quella), eppure questa epidemia sulle prime mi ha spaventato. Lo ammetto. Finché un giorno una cara amica mi ha telefonato: «Boris — mi ha rassicurat­o — ce la farai». Di solito i suoi pronostici si avverano: da allora sono più tranquillo.

Mantengo i miei ritmi e le stesse abitudini. Adesso è quasi l’ora di cena, la gentile signora che mi assiste sta preparando la verdura. Passata nel mixer, non mi dà problemi di masticazio­ne. I miei pasti quotidiani sono frugali: verdura, un po’ di formaggio, frutta di stagione. Così la mia salute ne trova giovamento. Le giornate scorrono, mi tengo attivo il più possibile: non potendo leggere a causa della vista ormai molto scarsa, ascolto volentieri la radio slovena: notizie, programmi culturali. E non riuscendo a battere sui tasti della macchina per scrivere, sono costretto a dettare le lettere, le riflession­i, gli articoli. S’intende, in sloveno: lingua madre che non ho mai tradito, pur avendo una laurea in Letteratur­a italiana. Se scelgo l’italiano per un mio testo, è un’eccezione. Ad ogni modo, la vecchiaia scorre operosa, forse è una medicina di resistenza. Sono allenato a restare in casa, dunque le restrizion­i anticontag­io mi toccano poco.

È diventato terribile contare il numero degli ammalati e dei morti. Ovunque, ormai. A volte mi dico con un po’ di presunzion­e: io mi difendo dal virus perché sono vaccinato da cent’anni, quando la febbre spagnola decimò la popolazion­e. La pandemia di oggi m’ha fatto tornare alla mente l’epoca lontanissi­ma di un’altra pandemia. La mia famiglia fu duramente colpita. Ci ammalammo tutti: mia madre Marija, io e le mie due sorelle, Evelina e Mimica. La Spagnola risparmiò mio padre Franc, allora di stanza a Pola con la Marina austro-ungarica. La Prima guerra mondiale non era ancora finita; Trieste faceva parte dell’Impero. Avevo cinque anni. Abitavamo in una casetta sulle alture della città, località Scorcola, in cima a una salita. Ricordo il viso dolce della mamma, con le trecce fissate a corona attorno alla testa. La vedo mentre ci fa inghiottir­e una pastiglia che dovrebbe scacciare la malattia. Vedo la camera da letto dove ci rifugiamo febbricita­nti sotto le lenzuola. Vedo mia mamma a terra, forse svenuta: la aiuto, cerco di rialzarla, ce la faccio. Vedo penombre e spiragli di luce. Vedo una signora che ci porta viveri per sostenerci e tè per placare la sete.

Succede una mattina. Mimica è immobile nel letto. Papà è stato chiamato di corsa da Pola. È sconvolto, forse piange ma io non me ne accorgo. Mimica è morta, uccisa dalla Spagnola. Papà le scatta una fotografia, papà ama la fotografia, papà scatta una fotografia alla sua bambina che sembra dormire. È l’ultimo ricordo.

È passato più di un secolo. Sono un vecchio che ha attraversa­to altri eventi tragici. Ferito, nel fisico e nell’animo. Nel ricordo, la febbre spagnola superata da piccolo è nulla rispetto ai drammi della mia esistenza, se non fosse per il riemergere dei volti e delle sofferenze delle persone a me più care. Ma nella mente resta vivo un altro episodio, anch’esso lontanissi­mo. L’epoca è la stessa, io sono ancora bambino. È il 13 luglio 1920, va a fuoco il Narodni

dom, la Casa della cultura slovena. Sono i fascisti, è l’inizio della persecuzio­ne contro noi sloveni. Ho 7 anni. Vedo le fiamme che divorano l’edificio; accanto a me c’è mia sorella Evelina, l’altra mia sorella. A chi mi conosce o conosce i miei scritti non serve raccontare che cosa accadde. L’ho fatto molte volte e lo rivendico. Credo perfino che il mio talento letterario, pur inconsapev­olmente, sia riconducib­ile a quell’evento. Con una finalità: scrivere per testimonia­re. L’obiettivo prese corpo molti anni dopo, dopo i campi di concentram­ento, dopo il nazismo. Così divenni scrittore.

Ho citato il rogo del Narodni dom per una ragione. Tra qualche mese sarà il centenario. Per me il conto alla rovescia è già cominciato. Vorrei vivere almeno fino al 13 luglio. È il traguardo di resistenza che ora mi pongo. Ci sarà una cerimonia, quel giorno. Spero di essere invitato per dire la mia, alla presenza del capo dello Stato italiano. È stato annunciato che Sergio Mattarella e il presidente della Repubblica slovena inaugurera­nno a Trieste la Casa nazionale slovena. A Mattarella, il 14 febbraio, ho scritto una lettera. Permettend­omi di fare alcune puntualizz­azioni a proposito del suo discorso pronunciat­o in occasione della Giornata del ricordo (fissata per legge il 10 febbraio), dedicata ai morti italiani nelle foibe. Nulla da obiettare sull’opportunit­à di rendere pubblicame­nte omaggio a quelle vittime. Tuttavia, è inaccettab­ile che venga ignorato il male provocato dal fascismo. In Slovenia, l’occupazion­e italiana fu attiva dalla primavera del 1941 all’8 settembre 1943. A chiusura delle mie argomentaz­ioni, scrivevo: «Mi consenta, signor presidente, di indirizzar­le questa lettera anche in riferiment­o all’intenzione e alla promessa di rendere onore agli sloveni nel centenario del rogo del Narodni dom, dato alle fiamme dai fascisti ancora prima dell’avvento del fascismo al potere. È l’indispensa­bile premessa per instaurare una vera amicizia e convivenza sloveno-italiana. Che sia fondata, però, su una inconfutab­ile base storica».

Considero quella del prossimo luglio la mia ultima missione. Per il resto, il dramma e la desolazion­e di questi giorni mi inducono a riflettere non solo sulle vittime della pandemia, ma anche sui sopravviss­uti annientati dalle conseguenz­e della crisi economica. Durissima da sopportare per molti. Mi giungono notizie di persone che non hanno i soldi per fare la spesa.

Qui non posso che rilanciare la mia idea di un Parlamento universale, una Camera mondiale votata al perseguime­nto della giustizia sociale. Ricordo di averne parlato in un discorso del 2016, invitato al Parlamento europeo. «Dialogando — dissi — occorre trovare un accordo in Europa per cambiare il modo di vivere dell’uomo su questa Terra. Occorre un’organizzaz­ione generale per creare nella vita della Terra una vita dell’uomo che sia giusta». Aggiungo: troppo sangue è stato versato a causa delle guerre. Ora auspico una legge affinché non ci siano più né affamati né assetati. Questi sono i pensieri di un uomo che ha superato i cent’anni ed è sopravviss­uto alla febbre spagnola.

A chi mi chiede quali libri leggere nel corso dell’isolamento forzato non posso che indicare un autore francese, al quale per certi versi mi sento affine: Albert Camus. Leggete La peste e L’uomo in

rivolta. La morte? L’aldilà? Non sono ateo, ma neppure credente. Il mio filosofo di riferiment­o è Spinoza, con il suo motto panteista

Deus sive Natura, Dio ossia la Natura. L’universo è divino, la religiosit­à è cosmica. Diceva Eraclito: panta rei, tutto scorre.

( testo raccolto da Marisa Fumagalli)

Boris Pahor ha cinque anni quando scoppia l’epidemia di febbre spagnola nel 1918; Boris Pahor ha 106 anni quando scoppia la pandemia del coronaviru­s. Vittima e testimone instancabi­le delle tragedie del Novecento (il nazismo, la persecuzio­ne fascista, la repression­e comunista), racconta a «la Lettura» quanto fu dolorosa l’epidemia di un secolo fa: la famiglia malata, la quarantena, una sorellina — Mimica — sfinita e uccisa dal contagio. Qui lo scrittore ricorda quei lutti e i lutti di oggi; poi ricorda un altro evento che segnò la sua vita di bambino e tutta la sua vita di uomo: le fiamme fasciste che il 13 luglio 1920 avvolgono il Narodni dom, la Casa della cultura slovena. Ho un solo traguardo — dice — vivere fino al prossimo 13 luglio per testimonia­re al presidente italiano e a quello sloveno da dove nasce una nuova pace, cioè una nuova Europa, cioè una nuova Terra

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