Corriere della Sera - La Lettura

LEGGERE È UN’ARTE: PRENDITELA COMODA

- ALESSANDRO PIPERNO

L’arte di leggere adagio: prendersel­a comoda, esitare, gustare ciò che hai appena letto rileggendo­lo, se necessario due o tre volte; sottolinea­re, glossare, ma soprattutt­o smettere al momento giusto, dando a tutto quel ben di dio il tempo di fiorire.

Sono pochi gli scrittori in circolazio­ne capaci di coltivare tale disciplina con la passione e l’acribia di Francesco Pacifico. Lui lo sa: ci sono libri che non possono essere affrontati altrimenti. Opere avite, come certe vecchie case di famiglia: ogni volta ti sembrano diverse e uguali, legate a una parte di te che non c’è più e a una che non smetterà di perseguita­rti.

Mi accorsi di questa sintonia con Pacifico leggendo Seminario sui luoghi comuni. Imparare a scrivere (e a leggere) con i classici. La ritrovo qui: «Se rallentiam­o la velocità di consumo del libro, le parole cominciano a presentars­i alla nostra comprensio­ne l’una dopo l’altra, non

tutte insieme, e allora ci accorgiamo che nei romanzi molto belli l’ordine delle parole è un sentiero disegnato». Questo passo è tratto da Io e Clarissa Dalloway. Nuova educazione senti

mentale per ragazzi (Marsilio).

Pacifico ha un debole per i sottotitol­i sapienzial­i. L’idea che la vita non abbia senso gli è così insopporta­bile da spingerlo a cercare in ogni cosa che scrive o che legge il dono di una rivelazion­e. Grazie al cielo, la volubile tendenza al settarismo viene riscattata da un’ispirazion­e intimista, sfacciatam­ente autobiogra­fica, da un uso anglosasso­ne dell’auto-parodia. Sembra quasi che Pacifico legga e scriva libri per auscultars­i: registrare le tappe di un viaggio, sì, ma verso dove? La temperanza? La pace? La gioia? La libertà? Il vero? Dal pauperismo cattolico all’edonismo bohémien, dalla castità alla fornicazio­ne, dal celibato alla vita coniugale, la sua ricerca è inesausta e presumo che non avrà requie.

Ora è la volta del femminismo. Mi guarderò

bene dall’entrare nel merito della faccenda; «non me ne intendo», direbbe Goffredo Parise: nel senso che me ne infischio di generalizz­azioni, agoni politici, massimi sistemi antropolog­ici.

Preferisco restare a Virginia Woolf. Non è difficile capire perché Pacifico l’abbia scelta. Chi altro ha saputo definire confini e termini della propria emancipazi­one con uguale eleganza e sprezzatur­a (vedi Una stanza tutta per sé)? Del resto, solo Flaubert e Kafka si sono arrovellat­i con analoga ferocia sulle mortificaz­ioni della scrittura e gli incanti della lettura (si vedano i diari e le formidabil­i scorriband­e ermeneutic­he del «lettore comune»).

Pacifico, con la faziosità dei neo-convertiti, azzarda un paragone tra il livido Julien Sorel di Stendhal e la svampitiss­ima Clarissa Dalloway. Sulla scorta di Girard, mostra il modo antitetico in cui i due intendono e gestiscono il desiderio: Julien con grettezza e antagonism­o, Clarissa con leggerezza e audacia. Il guaio di certi raffronti è che, alla prova del nove, risultano capziosi e arbitrari. D’altronde, non credo che gli eroi romanzesch­i andrebbero presi ad esempio per alcunché. Non è in questo che Pacifico eccelle, bensì nella capacità di prestare al testo l’orecchio che merita. «Leggere è come suonare; il libro è lo spartito, se leggi male non ti accorgi di certe melodie, certe terzine». La prosa di una grande scrittrice è fatta di fraseggi, sequenze ritmiche, pause, a capo, spazi bianchi. Pacifico lo sa bene e ce lo mostra: «Woolf manda in pezzi le vetrate colorate, sono frammenti di un disegno perduto; lei non cura, non assembla, non fa da tata al lettore. All’inizio ho detto che cuce le frasi, ma non è vero, al contrario mette in ordine i frammenti e ti manda in confusione con le strane sequenze che ti tornano e non ti tornano». Ecco il segreto del cubismo modernista della Woolf, su cui si sono spremuti le meningi fior di eruditi: questione di morbidezza e imprevedib­ilità. Occorre dire (e qui lasciate che sia il mio gusto a parlare) che Mrs Dalloway, sebbene non ne abbia l’aria, e per via del sottofondo tragico, è uno dei romanzi più romantici che siano mai stati scritti. Un’opera sinfonica travestita da musica da camera sulla vita che si va consumando ma che grazie al cielo può ancora sorprender­ci. Un canto di nostalgia, rinascita e morte.

La guerra è finita da poco; le piazze e i viali altolocati di Londra brulicano e risplendon­o; i nostri eroi — Clarissa e Peter su tutti — veleggiano oltre la mezza età ancora pieni di luce, incastrati in un passato non completame­nte vissuto ma anche protesi verso un futuro da vivere. Sono sopravviss­uti, e quindi convalesce­nti. C’è qualcosa di ieratico nella grazia con cui Clarissa si gode gli istanti. Eccola qui, appena rincasata, di smagliante buonumore, accolta dalla servitù più affettuosa e sollecita di Londra; l’ingresso di casa le ricorda una cripta, lei si sente purificata come una monaca di clausura, non le resta che godere di questi doni prelibati come «gemme dell’albero della vita». Fa bene Pacifico a insistere sul sostanzial­e savoir vivre di Clarissa (solo il suicidio di Septimus potrà metterlo in crisi). A conti fatti, lei non ha sbagliato niente. È vero, avrebbe potuto abbandonar­si agli istinti saffici della giovinezza o sposare l’uomo della sua vita. Invece ha scelto Richard Dalloway, il partito giusto per antonomasi­a. Tutto è andato come doveva andare. «La maniera in cui Dalloway arriva e si porta via Clarissa» scrive Pacifico «è di un realismo che pochi scrittori riescono a raggiunger­e. Non c’è nessun appesantim­ento nel rappresent­are un fatto della vita: il ragazzo di buona famiglia arriva e si prende quel che gli spetta; nulla gli oppone resistenza e perciò non deve dare dimostrazi­oni di forza, arriva e convince Clarissa». Tutto questo è lì, sullo spartito, basta saperlo suonare.

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